Roberto Giovannini, La Stampa 8/1/2014, 8 gennaio 2014
TASSE SULLA CASA, PASTICCIO DEL GOVERNO
Giornata convulsa, e ancora non risolutiva. Nonostante lunghe riunioni al ministero del Tesoro, l’Esecutivo ancora non è riuscito a risolvere il nodo delle aliquote della Tasi, la tassa sui servizi indivisibili. Non c’è ancora una decisione sull’ammontare dell’aumento e sulle modalità delle detrazioni. Anzi, il governo sembra intenzionato a prendersi qualche giorno per perfezionare il ritocco all’interno di un nuovo provvedimento. Come noto, per adesso la Tasi prima casa (che ha sostituito la vecchia Imu) ha un tetto massimo fissato al 2,5 per mille, mentre per la seconda casa e successive l’aliquota massima che i Comuni possono indicare è pari al 10,6 per mille. L’intenzione del governo, al momento, sembra essere quella di consentire di innalzare l’aliquota massima per la prima casa al 3 per mille, e quella per la seconda (comprensiva dell’Imu, che per questi immobili resta in vigore) all’11,1 per mille. Ne deriverebbe un gettito aggiuntivo di 1,4 miliardi di euro (in media un aggravio di 40 euro a famiglia in assenza di detrazioni), che sulla carta servirebbe per permettere ai Comuni di aumentare le detrazioni per le fasce più deboli in modo da cancellare per una fascia di contribuenti l’onere dell’imposta.
Il problema è che tutto si complica per la natura «federalista», e insieme regressiva, dell’imposta. Per come stanno le cose - e ieri sera questo nodo non era stato risolto - nulla impone ai Comuni di destinare totalmente il maggior gettito dell’imposta alle detrazioni: questo significa in concreto che molti sindaci (specie quelli le cui città hanno i conti in disordine, se non in dissesto) potrebbero decidere di aumentare al massimo le aliquote Tasi e poi «tenersi» in tasca le risorse aggiuntive per far quadrare i loro bilanci. In più nel passaggio dalla vecchia Imu alla nuova Tasi il carico fiscale è aumentato sugli immobili medi e piccoli, mentre si è alleggerito quello sulle case di valore più elevato, che pur essendo una parte minoritaria del patrimonio immobiliare assicuravano la fetta maggiore del gettito Imu.
Il combinato disposto di questa situazione produrrebbe un mezzo disastro: secondo alcune attendibili simulazioni, con aliquote spinte verso il tetto massimo e con detrazioni non generalizzate e di importo modesto, per molte famiglie il passaggio dalla vecchia Imu alla nuova imposta si rivelerebbe un solenne bidone. Come molti osservatori, peraltro, avevano preventivato da mesi. L’alternativa sulla carta ci sarebbe, sotto forma di un allargamento dei cordoni della borsa da parte del Tesoro. Un’operazione che soddisferebbe Comuni e contribuenti, e che permetterebbe al governo di dire che non c’è stato un aumento della pressione fiscale. Ma i conti pubblici sono come sono, e Saccomanni non vuole mollare.
In teoria, la discussione nel governo doveva portare a un confronto con i sindaci dell’Anci e con i partiti di maggioranza, per poi andare alla presentazione di un emendamento al decreto Imu-Bankitalia da oggi all’esame del Senato. Ma così non è stato, ed è molto probabile che si vada ad un provvedimento ad hoc tra qualche giorno. «Le detrazioni sono decisive e vanno fatte», dice il ministro per gli Affari Regionali, Graziano Delrio. «Complessivamente la pressione fiscale non aumenterà», assicura il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanni Legnini, che però avverte i Comuni che «non si può da una parte rivendicare autonomia e federalismo e dall’ altra accusare il governo di scaricare la responsabilità». E mentre sembra esclusa anche la definizione di una data unica per il pagamento della prima rata Tasi (ogni Comune deciderà autonomamente) quasi certamente si dovrà pagare entro il 24 gennaio la cosiddetta mini-Imu. Sempre Delrio ha chiarito che modificarla o sostituirla con una tassa sul gioco d’azzardo «non è al momento applicabile».