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 2014  gennaio 07 Martedì calendario

QUINTINO SELLA L’ARTE DEL PAREGGIO


[foto in allegato]

IL SAGGIO
Nell’autunno del 1862, all’indomani dell’Unità d’Italia, il Capo del governo Urbano Rattazzi ricevette una lettera di Quintino Sella, da poco nominato ministro delle Finanze. Sella scriveva di credere che non si potesse governare in modo vantaggioso e sicuro senza togliere lo stato d’assedio nelle province meridionali. Ed era vero: le lotte al brigantaggio dei vari governi, subito dopo il 1860 (così come del resto era accaduto anche prima), furono una combinazione di esecuzioni atroci e sospensione dei diritti individuali senza curarsi delle cause e del contesto sociale, che rimaneva inalterato, e perciò, colpendo gli effetti non tenendo conto delle cause, si riuscivano a ottenere soltanto risultati effimeri. Nel comprendere che il problema del brigantaggio non si poteva risolvere con lo stato di guerra già si intravede lo sguardo attento che Quintino Sella ebbe nell’osservare le vicende dell’Italia appena fatta, ma le sue doti politiche si rivelarono soprattutto in quel che fece per l’economia italiana.
Quintino Sella, nato nel 1827 in provincia di Biella, fu imprenditore, economista, scienziato, uomo politico, ministro delle Finanze nel 1862, nel 1864-65 e nel 1869-73. Restaurò l’erario con un regime di “economie fino all’osso” e di imposte. E fu anche il regista politico del trasferimento a Roma dell’amministrazione centrale dello Stato. Un personaggio di grande interesse, insomma, la cui opera intrisa di modernità è al centro di un libro appena uscito: Quintino Sella ministro delle Finanze, di Fernando Salsano (edizioni il Mulino, 280 pagine, 26 euro). Nel libro viene ricostruita la politica economica e finanziaria di Sella, descrivendo la sua lotta per il risanamento e la sua strategia per la crescita.
RIEQUILIBRIO
«Sella era convinto di non avere alternative. Dal riequilibrio dei conti pubblici dipendeva la sopravvivenza immediata dell’Italia unita, ma anche il futuro. La stabilità finanziaria non era un obiettivo fine a se stesso. Il pareggio di bilancio doveva innescare un circolo virtuoso: l’abbassamento dei rendimenti garantiti dai titoli di Stato doveva dirottare i capitali verso investimenti nei settori produttivi e nelle opere pubbliche». E la rigorosa attenzione ai conti non venne meno neppure in periodi di campagna elettorale: in un discorso tenuto prima delle elezioni del 1867 disse che “ove sorgessero amministrazioni le quali cercassero d’illudere il paese sulla vera situazione, e non avessero il coraggio di proporre i provvedimenti indispensabili alla riduzione del disavanzo a limiti tollerabili, allora io le combatterò come micidiali alla patria».
E non gli mancava l’ironia se, dopo l’annessione di Roma nel 1870, durante un banchetto offerto da illustri cittadini romani scherzò sulle acclamazioni ricevute prevedendo che l’entusiasmo nei suoi confronti era destinato a scemare con l’applicazione del regime fiscale italiano nei territori prima governati dal papa. Riconobbe comunque l’importanza, per lo sviluppo economico, di investimenti nell’istruzione e nei lavori pubblici. Disse: «Se non vi sono strade per cui possano trovar sfogo i prodotti, se non vi sono porti, in modo che il commercio rimanga impacciato, come può promuoversi l’agricoltura, come possono promuoversi i traffici, come può crescere l’industria, come può aumentarsi l’attività dei nostri concittadini, come può crescere la produttività e la ricchezza della nazione e come potrassi, per conseguenza, pagare le imposte che occorrono per sistemare davvero le nostre finanze». Sentì la responsabilità del suo ruolo e seppe tenere un comportamento esemplare. Nel 1864, dopo essere stato nominato ministro, scrisse al fratello Giuseppe Venanzio che continuava a occuparsi dell’azienda di famiglia: «Soltanto io ti pregherei di dirmi se avresti difficoltà a prendere meco impegno d’onore, che per tutto il tempo in cui io rimango al Ministero non farai alcun contratto col Governo»..
Vito Catalano