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 2014  gennaio 07 Martedì calendario

ROMPERE IL TABÙ DELL’ETÀ PENSIONABILE


In un articolo di qualche tempo fa l’Economist propose che la soluzione migliore al problema delle pensioni è quella di abolirle. O perlomeno di abolire l’idea stessa di età pensionabile, come criterio valido per tutti, a prescindere dal lavoro svolto e dal ruolo. Nello schema allo Stato sarebbe rimasto il problema di rispondere - sempre e comunque - a chi si trovi in condizione di bisogno, adattando però tale supporto all’età, alle condizioni specifiche dell’individuo.
Quella del settimanale inglese era senz’altro una provocazione, perché non esiste Paese del mondo che rinuncia a dettare regole di grande complessità e dettaglio. Anche se c’è ovviamente una differenza di approccio radicale tra un Paese come l’Italia - il cui sistema pensionistico continua ad assorbire dopo vent’anni di riforme il 17% del Pil, una cifra pari a tre volte quella spesa nella scuola, dagli asili all’Università - e uno come l’Inghilterra - dove l’incidenza è tre volte più bassa e che si può, al contrario dell’Italia, permettere di finanziare chiunque si trovi in uno stato di disoccupazione. E, tuttavia, quando si pensa alla proposta che il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, sta costruendo per consentire una qualche flessibilità a lavoratori e imprese nella fissazione del momento in cui scattano gli assegni previdenziali, torna il sospetto che il problema delle pensioni sia proprio quello di immaginare misure che siano valide per tutti, di stabilire che tutti possano (e debbano) ritirarsi dalla vita attiva al conseguimento di un certa età.
È evidente il problema che pone l’utilizzazione della legge come strumento di regolazione dell’età pensionabile e di un bisogno che diventa sempre più differenziato. Il rischio è quello di risparmiare lasciando nelle fabbriche operai ormai stanchi e, al contrario, espellere dalle università professori che potrebbero ancora attrarre studenti e finanziatori. Il pericolo è scoprire di aver costretto le amministrazioni pubbliche alla obsolescenza - in soli dieci anni l’età media negli uffici pubblici è salita di cinque anni, stretti come sono dalla impossibilità di assumere persone nuove e dalla necessità di tenersi più a lungo quelle anziane - e al contrario di aver, forse, sprecato la passione che tante persone anziane potrebbero mettere a disposizione per ricostruire comunità e servizi pubblici in grande sofferenza.
Del resto, la rigidità produce molto spesso un doppio costo: quello per i giovani con una riduzione drastica delle risorse finanziarie a loro disposizione; ma anche per chi va in pensione troppo presto perché ne paga le conseguenze con una caduta di motivazione nei confronti della vita e con la sensazione sgradevole che il privilegio lascia anche a chi ne è avvantaggiato. Giusta, dunque, l’intuizione del ministro del Lavoro di dover consentire maggiore flessibilità. Ma meglio, molto meglio sarebbe cominciare a costruire i presupposti per trasformare la natura stessa del problema delle pensioni. Finora, esso è stato trattato come questione puramente contabile e, forse, non poteva essere altrimenti vista l’urgenza di disinnescare una bomba ad orologeria che rischiava di far saltare le finanze pubbliche e che, comunque, è ancora il vero macigno legato al piede dell’economia italiana. Dovremmo però cominciare a provare a costruire una strategia di risposta alla questione delle pensioni che provi a trasformare il problema in opportunità e che, finalmente, ribalti la logica della coperta troppo corta che non può che produrre uno scontro tra generazioni.
Invecchiamento attivo: è questa la ricetta che ha portato Paesi come la Svezia o la Svizzera a risolvere il problema delle pensioni, alzando, semplicemente, l’asticella - normalmente fissata a sessantacinque anni - oltre la quale le persone vengono considerate dall’Oecd in stato di “dipendenza”. Sono più del 70% i sessantenni che ancora risultano occupati nei Paesi del Nord Europa o in Svizzera e nella stessa Inghilterra sono un milione le persone che a settant’anni sono ancora attive. Molti sono impegnati nel volontariato, ma altri fanno consulenza per le proprie imprese o hanno scelto di lavorare part time; altri ancora sono occupati studiando e praticando gli sport che non sono mai riusciti ad avvicinare prima. Per alcuni l’invecchiamento attivo significa guadagnare da viversi e aver meno bisogno di un assegno previdenziale; per altri stare meglio e avere meno bisogno di cure; o, magari, semplicemente aver trovato quel ruolo che è parte integrante della funzione sociale del lavoro. Sono tendenze che esistono anche in Italia, ma che vanno fatte conoscere a lavoratori e imprese, diffuse come un contagio virale perché fondamentali nel costruire la soluzione che ci sfugge.
Anche in Italia certe soluzioni devono essere sperimentate in maniera sistematica. Agli anziani va fornito - proprio come ai giovani - un voucher spendibile in un progetto di formazione, consulenza, finalizzato a trovare un impegno alternativo alla pensione. Il voucher va speso presso il centro per l’impiego pubblico o l’agenzia di lavoro privata che offre all’utente le migliori garanzie e solo ad ottenimento del risultato. Una garanzia per gli anziani, il cui funzionamento sia simile a quello previsto dal “contratto di ricollocazione” introdotto dall’ultima legge di stabilità e che potrebbe essere finanziato da una quota significativa degli 8 miliardi di euro assegnati dal Fondo Sociale della Commissione Europea alle Regioni Italiane. Meno leggi. Più flessibilità. Sui segmenti più giovani e su quelli più anziani. Potrebbe essere questa la strada per cominciare a costruire un mondo nel quale si possa, finalmente, immaginare che non sia un problema l’aumento della speranza di vita media e a non sprecare capitale umano, esperienza ed entusiasmo in una guerra tra generazioni che è senza soluzione.