Paolo Mieli, Corriere della Sera 7/1/2014, 7 gennaio 2014
D’ANNUNZIO SCOSSE L’ALBERO E MUSSOLINI RACCOLSE I FRUTTI
L’estate del 1919 segnò il culmine del successo politico di Gabriele d’Annunzio. Sembrò in quei mesi che l’Italia intera stesse per cadere tra le braccia del poeta. Poco tempo prima, a Parigi, il presidente del Consiglio italiano, Vittorio Emanuele Orlando, aveva confidato ai partecipanti alla conferenza di pace che avvertiva, non senza un’evidente apprensione, qualche scricchiolio della sua poltrona, al punto da intravedere la propria, imminente caduta, vuoi per una congiura parlamentare, vuoi per una sollevazione di piazza o per tutte e due le cose insieme. Il suo omologo inglese David Lloyd George gli aveva chiesto chi, in quella eventualità, avrebbe potuto prendere il suo posto. E Orlando, sorprendendo l’interlocutore, non aveva avuto dubbi nell’indicare un solo e unico nome, quello di d’Annunzio.
Anche Benito Mussolini la pensava allo stesso modo e, con un quasi esplicito riferimento al poeta, scriveva: «Il popolo italiano è un masso di minerale prezioso. Bisogna fonderlo, pulirlo dalle scorie, lavorarlo. È ancora possibile un’opera d’arte. Ci vuole un governo, un uomo, un uomo che abbia, quando occorra, la mano dal tocco delicato dell’artista, il pugno pesante del guerriero… un uomo che conosca il popolo, ami il popolo, indirizzi e pieghi — anche con la violenza — il popolo». In quel momento non gli passava per la testa che, nel giro di tre anni, quell’uomo sarebbe potuto essere lui stesso. Del resto ancora nel 1923, un anno dopo la marcia su Roma, Ernest Hemingway avrà modo di scrivere: «In Italia sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando, e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso, che è Gabriele D’Annunzio».
Lucy Hughes-Hallett in Gabriele D’Annunzio. L’uomo, il poeta, il sogno di una vita come opera d’arte (di imminente pubblicazione per i tipi Rizzoli nell’eccellente traduzione di Roberta Zuppet) torna su quel frangente cruciale della storia italiana del Novecento per mettere sapientemente in luce la sottile schermaglia che portò il Duce nel breve corso di quegli anni dapprima a lusingare, poi a imbrigliare, soppiantare e, infine — di fatto — a tener prigioniero il Vate sul lago di Garda, prendendo il posto nella storia del nostro Paese che in molti pensavano dovesse o potesse spettare a lui.
I due si erano idealmente scontrati nel 1911, ai tempi della guerra di Libia, allorché un Mussolini ancora socialista scriveva: «Sorga dalle moltitudini del proletariato un grido solo… “Abbasso la guerra!”». E finiva in carcere per aver denunciato prima, aggredito poi, i «guerrafondai di professione». All’epoca d’Annunzio probabilmente non aveva alcuna contezza di chi fosse quell’irrequieto direttore dell’«Avanti!», che aveva vent’anni meno di lui. Poi era stato Mussolini a cambiare posizione, diventando interventista, e nel marzo del 1915, alla vigilia della Grande guerra, si era rivolto all’autore de Il piacere chiamandolo «Maestro» per chiedergli, con una lettera dai toni spagnoleschi, un articolo da pubblicare sul suo nuovo giornale, «Il Popolo d’Italia». Senza ottenere risposta. Così come senza reazione alcuna restò una seconda missiva di Mussolini a d’Annunzio, scritta, a guerra finita, per fissare un incontro al fine di stabilire un’agenda politica comune. Nel mezzo c’era stata, da parte di d’Annunzio, la sottoscrizione di un abbonamento al «Popolo d’Italia» (solo per il 1916).
Renzo De Felice, però, nel suo D’Annunzio politico (Laterza) la considera una traccia dell’interesse dell’autore delle Laudi nei confronti di Mussolini, «labilissima, per non dire priva di significato». Era venuta poi la primavera del 1919, nel corso della quale d’Annunzio si era lasciato trascinare in una serie di cospirazioni (alquanto velleitarie) che, sia pure marginalmente, avevano coinvolto anche il capo del fascismo. E una sera di giugno (poco dopo le dimissioni di Orlando e l’avvento alla presidenza del Consiglio di Francesco Saverio Nitti) d’Annunzio aveva accettato di incontrare il direttore del «Popolo d’Italia»: a Roma, al Grand Hotel. Sedevano uno di fronte all’altro, il più rinomato poeta italiano dell’epoca e l’agitatore ansioso di mettersi a sua disposizione. L’autore della Francesca da Rimini all’epoca era così autorevole che gli bastava una telefonata per farsi ricevere dal re nel giro di qualche minuto e una volta Vittorio Emanuele III, nell’accomiatarsi, gli aveva fatto uno strano discorso sui limiti che gli imponeva la Costituzione. Parole che il poeta aveva inteso come un’investitura morale, da parte del sovrano, a prossimo «condottiero dell’Italia tutta». Guardava perciò a Mussolini come al capo di una delle fazioni che potevano tornargli utili da un momento all’altro. Ma non faceva mistero di considerarlo una figura tutto sommato marginale.
Poi in settembre d’Annunzio, alla guida di 2.500 uomini, aveva occupato Fiume, proclamandone l’annessione all’Italia. L’11 settembre, prima di dirigersi su Ronchi, aveva scritto a Mussolini una lettera assai generica. E, secondo De Felice, non si può dire che lo avesse informato appieno delle sue intenzioni. L’impresa di Fiume poteva apparire ed essere (secondo le successive rivelazioni del leader del Partito autonomista, Riccardo Zanella) la prova generale della conquista del potere in tutto il Paese. Mussolini nell’occasione era stato prodigo di elogi, ma avaro di iniziative. E a questo punto ci fu una terza lettera, stavolta indirizzata da d’Annunzio al capo dei fascisti, nella quale i toni furono quasi offensivi: «Mi stupisco di voi… tremate di paura… state lì a cianciare mentre noi lottiamo… E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime e sgonfiatela».
Dopodiché tra i due erano stati sospetti, quando non polemiche aperte, in almeno tre occasioni: quando Mussolini aveva tenuto per il suo movimento i soldi raccolti con la sottoscrizione per l’impresa di Fiume; quando il 12 novembre del 1920 fu firmato il trattato di Rapallo tra Italia e Jugoslavia, in virtù del quale Fiume sarebbe stata una città autonoma, ma non italiana (Mussolini in sostanza lo approvò, d’Annunzio lo avversò); in occasione del «Natale di sangue», cioè quando, tra il 24 e il 29 dicembre del 1920, i militari italiani attaccarono i legionari dannunziani e Mussolini in buona sostanza accettò il fatto compiuto.
Il calcolo di Mussolini era azzeccato. Così che fu lui a raccogliere l’eredità di Fiume, impossessandosene. Tra gennaio e maggio del 1921, oltre duecento persone furono uccise e circa mille restarono ferite negli scontri che opposero squadre fasciste e socialiste. E però i fascisti avevano un enorme vantaggio: molto spesso, quasi sempre, i carabinieri solidarizzavano con loro, l’esercito forniva gli autocarri per gli spostamenti, gli ufficiali li affiancavano, i giudici assolvevano le camicie nere accusate di omicidio e affibbiavano il massimo della pena ai socialisti imputati per lo stesso reato. D’Annunzio manteneva le distanze ed esortava la Federazione nazionale dei legionari fiumani, creata da Alceste De Ambris, a non lasciarsi «contagiare» da nessun’altra organizzazione: «Non c’è oggi in Italia» sosteneva, «nessun movimento politico sincero». Affermazione generica, ma riferita con ogni evidenza al partito fascista.
Il 5 aprile del 1921 Mussolini fa visita a d’Annunzio per farsi aiutare da lui in vista delle imminenti elezioni. Gli propone di candidarsi per Zara e di scrivere qualcosa — «un proclama, un programma» — che i fascisti possano usare nel corso della campagna elettorale. D’Annunzio respinge entrambe le offerte. Il 24 aprile si tengono le elezioni a Fiume. Vince il Partito autonomista di Riccardo Zanella. Fascisti e nazionalisti invadono gli uffici governativi, fracassano le urne e tentano un putsch. D’Annunzio invia telegrammi di incoraggiamento e congratulazioni, ma non raccoglie l’invito dei legionari a tornare a Fiume. Di lì a breve, il 15 maggio, si tengono le elezioni politiche in tutta Italia. Mussolini accoglie l’esortazione di Giovanni Giolitti ed entra nei cosiddetti «blocchi nazionali». Giolitti spera così di imbrigliarlo, ma, appena passate le elezioni, Mussolini, eletto, si divincola e procede per la sua strada. D’Annunzio pensa invece a costruire il mito di sé. Collabora attivamente, posando anche di persona, alla realizzazione di un documentario sulla sua figura. E ancora una volta prende le distanze dal fascismo: il 19 giugno spedisce un messaggio agli Arditi, radunati a Roma, per esortarli a «mantenere le distanze da qualsiasi formazione politica esistente». Anche stavolta non è un mistero a quale fra le tante intenda riferirsi.
Quando poi Mussolini, per consolidare il proprio movimento, propone ai socialisti un patto di pacificazione, due suoi seguaci tra i più illustri, Dino Grandi e Italo Balbo, fanno visita a d’Annunzio al Vittoriale per chiedergli di prendere il posto del Duce. D’Annunzio tentenna, chiede tempo per consultare le stelle e, dal momento che il cielo è coperto, annuncia ai due che si dovrà attendere. Grandi e Balbo a questo punto trovano il modo di ritirare l’offerta e non se ne farà nulla.
Si arriva così al dicembre del 1921, allorché viene dato alle stampe il programma del Partito nazionale fascista, che Mussolini ha infarcito di idee per così dire dannunziane: la nazione come «organismo» capace di resistere attraverso la storia, e dunque assai più grande della somma dei suoi membri viventi; le corporazioni come adeguata unità di organizzazione sociale; l’Italia come «baluardo della civiltà latina»; l’esigenza imprescindibile che il Paese raggiunga l’«unità geografica» e che difenda i diritti degli italiani all’estero; la necessità di addestrare i giovani a essere sempre pronti per il «pericolo» e per la «gloria». Si tratta, per quel che riguarda quest’ultimo punto, dell’incitamento ad arruolarsi nelle «squadre», le cui pratiche violente sono considerate «la forza viva in cui l’Idea Fascista si incarna e con cui si difende». In questo periodo d’Annunzio sostiene che i legionari gli «danno il tormento» perché assuma nuovamente la loro leadership e ci sono innumerevoli prove che la sua non è una millanteria. Ma lui insiste che non vuole più dedicarsi alla vita pubblica. Anche se, nell’agosto del 1921, confida all’amico Marcel Boulanger: «Mi auguro di essere la persona alla quale un giorno si penserà dicendo: Avanti! Non resta che lui! Ma se pretendo di essere utile un giorno, se si ricorrerà a me, ho bisogno di un’autorità illimitata». Parole che, ha osservato con acutezza Giordano Bruno Guerri — autore del documentatissimo D’Annunzio, l’amante guerriero (Mondadori) — «la dicono lunga sull’ingenuità e sulla scarsa chiaroveggenza del d’Annunzio politico». Anche se i capi della Cgl Ludovico D’Aragona e Gino Baldesi, ancora tra l’aprile e il maggio del 1922, coltivano il sogno di mettere il movimento sindacale sotto la protezione di d’Annunzio.
Nel maggio del 1922, il poeta riceve Georgij Cicerin, il commissario sovietico agli Affari esteri, che alloggia al Vittoriale per qualche giorno. «Mostrate molto più coraggio voi nel ricevermi di quanto non ne mostri io nel farvi visita», gli dice il russo. «Io non ho mai temuto i contagi», gli risponde il Vate, fraintendendo volutamente, secondo Hughes-Hallett, l’osservazione. Però d’Annunzio se la prende con i «demagoghi che credono di aderire alla realtà e non aderiscono se non alla loro camicia sordida». I comunisti italiani per un momento pensano che sia un segnale di disponibilità nei loro confronti. Lenin li esorta a non trascurare quell’uomo che vive sul lago di Garda. Antonio Gramsci gli chiede un abboccamento. Ma d’Annunzio lascia cadere la richiesta. E il fondatore del Partito comunista Amadeo Bordiga, addirittura un anno e mezzo dopo la marcia su Roma, invierà nel gennaio del 1924 espliciti messaggi al Vate (con due articoli pubblicati su «Prometeo») per ottenere da lui una presa di distanze da Mussolini e un ricongiungimento con la sinistra.
Ma gli eventi prendono una direzione diversa. Ai primi di agosto del 1922 d’Annunzio va a Milano per incontrare Eleonora Duse e per convincere l’editore Treves a pubblicare la sua Opera Omnia. Alcuni suoi ex commilitoni gli fanno visita all’Hotel Cavour e di lì lo trascinano a Palazzo Marino, che è stato appena assaltato ed espugnato dagli squadristi. Dopo lo conducono su un balcone e quasi lo costringono a prendere la parola. È la prima volta che il Vate parla in pubblico dopo venti mesi. «Oggi non v’è salute fuori della nazione, non v’è salute contro la nazione», afferma con voce stentorea. Evita di pronunciare la parola fascismo e di esprimersi su Mussolini. Ma non conosce le nuove regole della comunicazione politica ed è come se si fosse espresso a favore del Duce. Secondo Lucy Hughes-Hallett, invece, d’Annunzio quelle regole le conosce benissimo, ma «forse ha paura di rifiutare l’invito delle camicie nere». In ogni caso il capo del Partito fascista sfrutta l’episodio e gli invia questo telegramma: «Il Pnf raccoglie il vostro altissimo monito e ricambia il grido di Viva il fascismo». Parole che il poeta non aveva mai pronunciato. Ma intanto il telegramma è già in prima pagina sul «Popolo d’Italia».
Nell’agosto del 1922, d’Annunzio è in procinto di svolgere un ruolo diplomatico molto particolare, quello di far incontrare al Vittoriale Francesco Saverio Nitti (che gli ha chiesto di prendere l’iniziativa) e Benito Mussolini. Ma il giorno 13 cade da una finestra da un’altezza di quattro metri, per quello che definirà «volo dell’arcangelo», e si ferisce gravemente. Gli è vicino Aldo Finzi, uno dei piloti che nel 1918 avevano volato con lui su Vienna e che ora è un membro influente del Pnf. Secondo gli antifascisti, è lui che ha tentato di ucciderlo. In ogni caso l’incontro con Nitti e Mussolini salta. Secondo Giordano Bruno Guerri, che ne ha scritto nel bel libro La mia vita carnale (Mondadori), l’accaduto è da ricondurre a un’amante gelosa.
Nell’autunno del 1922 i fascisti si ispirano sempre più ostentatamente a colui che, però, in privato Mussolini definisce il «vecchio bardo decrepito». La rivista «Gerarchia» descrive quelli che saranno i tratti distintivi della vita pubblica sotto il fascismo: «I vessilli che si agitano nel vento, le camicie nere, i caschi, i canti, l’urlo “Eia, eia, eia, alalà!”, il saluto romano, l’enumerazione dei nomi dei morti, i banchetti ufficiali, i giuramenti solenni, le parate in stile militare». Sarebbe potuta essere, scrive Hughes-Hallett, «una descrizione della Fiume dannunziana». Margherita Sarfatti, direttrice di «Gerarchia», attribuisce al Vate «il merito di aver creato riti che sotto il fascismo sarebbero diventati una forma d’arte e uno stile di vita, insieme allegri e austeri, spensierati, ma anche densi di significato religioso e morale». Angelo Tasca, tra i fondatori del Partito comunista d’Italia, è il primo a notare che l’impresa di Fiume dà al fascismo «un modello per la milizia e per le uniformi, per i nomi delle squadre, per gli slogan e per la liturgia». In effetti Mussolini imitò in tutto e per tutto lo stile di comunicazione dannunziano, a partire dai dialoghi con la folla. Ne fece propria la mentalità. Secondo Angelo Tasca, ai tempi del fascismo d’Annunzio fu vittima di «uno dei più clamorosi casi di plagio della storia».
In quelle settimane dell’autunno 1922 Mussolini fa visita a d’Annunzio per trattare la questione delle defezioni verso il sindacato fascista da parte di iscritti alla Federazione dei lavoratori del mare di Giuseppe Giulietti, che sta molto a cuore al poeta. Mussolini in questa occasione cede a d’Annunzio. È il 13 ottobre, ha in serbo progetti ben più importanti: la spallata al traballante governo Facta. Il 28 ottobre 1922, giorno della marcia su Roma, Mussolini scrive a d’Annunzio: «Non vi chiedo di schierarvi al nostro fianco, il che ci gioverebbe infinitamente; ma siamo sicuri che non vi metterete contro questa meravigliosa gioventù che si batte per la nostra e vostra Italia». A quel punto, d’Annunzio, che mai si sarebbe schierato a fianco di Mussolini (così come, probabilmente, mai avrebbe «affiancato» nessun altro essere umano), cerca rifugio «nell’incoerenza». La sua risposta accenna alla «tristezza» e al «disagio spirituale» che ha provato nell’udire la notizia dell’accaduto, ma promette di dare al fascismo un «colpo di spalla risoluto e robusto». Si impegna inoltre («come se si stesse rivolgendo a un criminale», fa notare Lucy Hughes-Hallett) a «non veder, non udir». E spedisce al capo del Partito fascista un volume dei propri discorsi di guerra, con uno strano ammonimento: «La vittoria ha gli occhi chiari di Pallade. Non la bendate».
Il 2 novembre pubblica una dichiarazione sulla rivista dell’associazione dei legionari, in cui sostiene che bisogna «tollerare» il «governo esperimentale» di Mussolini. E, rivolgendosi al proprio braccio destro Tom Antongini, deplora che i fascisti si servano del suo nome. In un’altra lettera, al direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini, riferendosi a Mussolini, si lamenta di veder «ogni giorno miseramente sperperato e falsato il mio mondo ideale».
Da quell’autunno del 1922 d’Annunzio si apparta. E ne dà formale annuncio al capo del governo in una lettera del 16 dicembre. Mussolini, per niente rassicurato, leggeva con particolare interesse i rapporti di polizia sulle attività e le frequentazioni del Vate. Al Duce «tornava utile che il popolo italiano credesse nel pieno appoggio del poeta al nuovo regime… in realtà i due continuarono a diffidare uno dell’altro». D’Annunzio evitò qualsiasi manifestazione pubblica di sostegno al fascismo. In alcune occasioni, assunse un atteggiamento paternalistico, sottolineando quanto Mussolini e i suoi adepti avessero «imparato» da lui. E Mussolini mai lo smentì. Anzi. Lo considerava «inaffidabile», temeva che potesse avere un’«influenza pericolosa», perciò — ripeteva — occorreva «ingraziarselo». Soprattutto quando, nelle oscillazioni successive all’uccisione di Giacomo Matteotti, d’Annunzio definì la situazione del momento una «fetida ruina». Meglio non correre il rischio che potesse soffiare ulteriormente sul fuoco.
A tal fine, Mussolini acconsentì a tutte le sue richieste, con una sola eccezione: gli negò il permesso di costruire un campo d’aviazione vicino alla villa. Nel caso avesse avuto intenzione di fare al regime qualche sorpresa o fosse stato tentato da un colpo di testa, non doveva avere una via di fuga. E bisognava che di ciò fosse consapevole. Per il resto gli fece regali di ogni genere — somme vertiginose, la ristrutturazione del Vittoriale a carico dello Stato, l’aereo con cui il poeta aveva volato su Vienna nell’agosto del 1918, il Mas della beffa di Buccari, l’iper retribuita destinazione alla Mondadori della sua Opera Omnia (44 volumi, «una gratificazione immensa per la sua vanità», scrive Lucy Hughes-Hallett), un idrovolante, la prua della nave da guerra «Puglia» — e lo nominò principe di Montenevoso (davvero incredibile che d’Annunzio non solo abbia accettato, ma si sia fatto disegnare uno stemma con tanto di corona d’alloro, montagna e sette stelle!).
Gli storici si sono posti il problema se d’Annunzio andasse considerato come corrotto da Mussolini. Alcuni dei suoi più importanti biografi, Guglielmo Gatti in Vita di Gabriele d’Annunzio (Sansoni) e Nino Valeri in D’Annunzio davanti al fascismo (Le Monnier), hanno negato che si potesse usare quel termine. Mussolini, ha scritto Gatti, «senza dubbio andò incontro ai bisogni di d’Annunzio, ma questi, poiché riteneva che, qualunque larghezza gli si usasse, si fosse sempre lontani da quanto l’Italia gli doveva, non si sentì mai, e in nessun caso, vincolato». Valeri ha riconosciuto che le donazioni di Mussolini «possono sembrare un tentativo di corruzione del poeta perplesso», ma — ha subito precisato — «non lo sono, quando si consideri il superomismo di fondo in lui, ondeggiante tra il bisogno di denaro e il disprezzo per chi glielo forniva».
Più politico il giudizio di Renzo De Felice, nella prefazione al Carteggio d’Annunzio-Mussolini (Mondadori): «Il problema della corruzione non si pone, al massimo si può parlare di “senso degli affari” (poco poetico, forse, ma molto umano), di una notevole abilità cioè a non far scadere l’interesse della controparte a dimostrarsi condiscendente e munifica; tanto più che, così facendo, d’Annunzio segnava anche un altro importante punto al suo attivo: evitava di riconoscere e di rendere palese la propria sconfitta politica». Perché di questo si trattava: fin dall’inizio degli anni Venti, d’Annunzio aveva perso la partita senza neanche accorgersi di averla giocata. E la storia non gli avrebbe concesso la rivincita.
Nel 1925, dopo il discorso mussoliniano del 3 gennaio, inizia il regime vero e proprio. D’Annunzio è assalito dalla malinconia. Pensa alla morte. Scrive al Duce proponendo una spedizione di sola andata in aeronave al Polo Nord: «Pensa, piantare la nostra bandiera nel luogo inaccesso, e rimaner là, a piè dell’astile, guardando con occhio fermo il dirigibile vittorioso partire verso la Patria!». Lucy Hughes-Hallett nota come Mussolini ignori «le connotazioni suicide del messaggio» e, quasi a prenderlo in giro, inviti il poeta a Roma per discutere del progetto. Ovviamente d’Annunzio non andrà quella volta nella capitale. Anzi, non ci andrà mai più.
Si sveglierà dal torpore politico solo per esprimere dissenso nei confronti dei Patti lateranensi, da lui definiti un «accordo con la pretaglia». E per orientare il Duce contro Adolf Hitler: «Un marrano dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce di colla», scrive nel giugno del 1934. E al Duce, dopo il fallimento del putsch hitleriano di quell’anno a Vienna, propone di annettere l’Austria in funzione antitedesca. Mai in ogni caso d’Annunzio si sottrarrà ai vituperii contro Hitler da lui definito volta a volta «Attila imbianchino» o «ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot». Anche se un biografo non certo antipatizzante qual è Guerri ha prestato fede al racconto secondo cui il poeta nel 1935 avrebbe affidato al germanista cattolico Guido Manacorda un portasigarette e una medaglia d’Africa perché li portasse in dono a Hitler. «Può essere che in quel periodo d’Annunzio apprezzasse l’appoggio dato dalla Germania alla guerra d’Etiopia», ha scritto Guerri.
Ai tempi della guerra d’Etiopia, d’Annunzio si lascia andare ad una serie di incredibili e magniloquenti esaltazioni del Duce. Espressioni «ditirambiche» le definisce Paolo Alatri, che però, sottolinea, «erano rivolte soltanto alla figura di Mussolini, non al regime da lui fondato e gestito». Il 19 agosto 1935 gli telegrafa: «Da questa notte sono il tuo luogotenente pronto agli ordini più perigliosi». Il 1° marzo del 1936 svillaneggia il negus Hailé Selassié, definendolo «villoso fantoccio»: «La barba sembra incorniciarlo come una volgare oleografia di un caffè di provincia». Poi torna a lodare Mussolini. Il 10 maggio del 1936 (in occasione della proclamazione dell’impero) afferma: «Penso che si addica al nostro Capo imperterrito il soprannome di Africano maggiore, se viga il fasto di Roma». E il 26 settembre dello stesso anno gli scrive: «Ti ho ammirato e ti ammiro in ogni tuo atto e in ogni tua parola; ti sei mostrato e ti mostri sempre pari al destino che tu medesimo rendi invitto e immoto come una legge, come un decreto, non come un nuovo ordine, ma come un ordine eterno».
Poi però, nel settembre 1937, incontra un’ultima volta, alla stazione di Verona, Mussolini che sta tornando dall’incontro in cui ha definito i termini della sua alleanza con Hitler. Quell’Hitler che il Vate ha definito «pagliaccio feroce». Ne scrive il suo biografo Philippe Jullian: «D’Annunzio, al braccio dell’architetto Maroni, percorre a passo strascicato il tappeto rosso fino al finestrino del vagone da cui si affaccia il Duce. Con il sorriso di un orco, Mussolini gli prende la mano». Sceso dal treno il capo del regime fascista si avvia ad un balcone da cui terrà un discorso. «Il vecchietto lo segue a fatica, chiacchierando e agitando le mani avvizzite; Mussolini, senza rallentare, gli sorride di tanto in tanto, ma le ovazioni della moltitudine gli impediscono di udire anche una sola parola di ciò che d’Annunzio sta dicendo». Comunque gli storici dibatteranno a lungo se il poeta si sia limitato a esprimergli i sensi della sua ammirazione (come sostenne Giovanni Rizzo, il funzionario del ministero dell’Interno messogli al fianco dal Duce) o abbia pronunciato anche parole antihitleriane (come attestò Maroni).
Nei suoi ultimi mesi di vita, Mussolini gli propone di succedere a Guglielmo Marconi come presidente dell’Accademia d’Italia. Il Vate sorprendentemente accetta quell’incarico, che fino a poco tempo prima avrebbe respinto con sdegno e, anzi, medita di farsi fare una dentiera per andare a tenere il discorso inaugurale. La morte lo coglie il 2 marzo del 1938.
Annota Galeazzo Ciano nel diario che quel giorno Mussolini gli avrebbe detto del senso di «vuoto» che sentiva per la scomparsa del poeta: «Ormai significava ben poco», avrebbe aggiunto, «ma era là, quel vecchio, e ogni tanto giungeva un suo messaggio». Avrebbe anche riconosciuto che «aveva rappresentato molto nella sua vita». Espressioni da cui si avverte (non si sa bene se da parte di Ciano o di Mussolini) un che di insincero. Nel dopoguerra, Ernesto Cabruna, suo braccio destro a Fiume, avrebbe rivelato come Mussolini lo aveva tenuto prigioniero al Vittoriale mettendo al suo servizio 21 persone tra cui sei membri della polizia politica fascista. Da morto, d’Annunzio continua a estorcere quattrini tramite il suo collaboratore Giancarlo Maroni, a cui è affidato il compito di dirigere la Fondazione del Vittoriale. Maroni sostiene di comunicare con il Vate tramite sedute spiritiche e trasmette al Duce i suoi messaggi postumi. I quali consistono in richieste di denaro per completare e abbellire l’anfiteatro e il mausoleo del Vittoriale. Mussolini acconsente. Ma riesce a far sì che il Vittoriale sia completato secondo i suoi gusti. Così, da morto, scrive Hughes-Hallett, d’Annunzio è costretto a «schierarsi»: «Il mausoleo è un monumento essenzialmente fascista». E questa può essere considerata la definitiva vittoria di Mussolini su d’Annunzio.
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