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 2014  gennaio 07 Martedì calendario

L’EDITOR DI MONDADORI CHE MI HA RUBATO IL CUORE


Mario dove sei, cosa stai facendo adesso? Perché non mi chiami? È una storia lunga, ma cercherò di farvela breve perché soffro a parlarne. Fino a oggi, è noto, ho sempre odiato gli editor. Almeno per quanto mi riguarda, perché poi gli scrittori veri sono così pochi e i romanzi inutili così tanti che per gli altri ben venga qualsiasi editor, chissenefrega, male non gli farà.
Gli editor di narrativa poi sono i peggiori, tutti scrittori mancati, con almeno un romanzino nel cassetto che l’editore per cui lavorano prima o poi pubblica per pietà. Credo perfino Alice Di Stefano sia diventata l’editor della Fazi non per sposare Fazi ma per pubblicare il suo romanzino, e visto che il protagonista era Fazi, a Fazi è andata di lusso. Almeno Michele Rossi, della Rizzoli, si è tolto lo sfizio di pubblicare i romanzini prima. Anche Sergio Claudio Perroni, agente e editor di Veronesi per Bompiani, ha pubblicato due romanzini per Bompiani, ma la lista sarebbe lunghissima.
Ne ho conosciuti molti, disinnescati tutti. Proprio Bompiani me ne mandava a sciami, uno dopo l’altro, io li rispedivo al mittente schiacciandoli come zanzare, e l’ultimo, il più vicino alla direttrice editoriale, che si chiamava Lio o forse L’io, mi disse al telefono: «Tu non puoi parlarmi così, io sono un editor della Bompiani!», io gli feci una pernacchia e riattaccai. Mai più sentito.
Eh sì, erano bei tempi. Finché non passai a Mondadori e Antonio Franchini, il direttore editoriale, non mi presentò lui: Mario. È stata la fine del Parente mangiatore di editor. All’inizio lo guardai con diffidenza. Napoletano, a volte con il pizzetto a volte no, ex avvocato, in realtà Mario mi conquistò subito.
Mario è il mio editor ideale perché coglie sfumature della mia scrittura che neppure io colgo. Non cerca di imbrigliarmi, anzi, mi fa notare come un certo giro di frase a pagina x non sia del tutto parentiano, che si può parentizzare di più. Mario conosce la mia opera meglio di me, si accorge di discrepanze temporali o di senso impercettibili, si accorge di dettagli minimi. Con Mario non devo lottare, come con altri, neppure per farmi togliere le «d» eufoniche, si accorge perfino di quelle che ho lasciato io, per sbaglio.
Mario è anche un bell’uomo. Franchini, cintura nera di judo e jujitsu, lo prende in giro dandogli del rammollito, io lo trovo scattante nel suo aplomb sedentario, misteriosamente slanciato. Con Mario ho lavorato a L’inumano, il romanzo che ha chiuso una complessa trilogia la cui scrittura mi ha impegnato dieci anni. Con Mario ho appena finito la correzione de Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler, il mio nuovo romanzo che uscirà il 28 gennaio. Inutile dirlo bellissimo, un altro capolavoro.
Mario mi viene a prendere alla stazione di Milano con la macchina. Mario mi porta a fare colazione al bar e mi dà il cornetto con la crema. Con Mario interrompo la mia dieta Anna Wintour, mi lascio viziare. Quando arriviamo a Segrate e saliamo al quarto piano del palazzo Mondadori realizzato dell’architetto Oscar Niemeyer, andiamo a rinchiuderci in una saletta perché la Mondadori è tutta open space. Tutta open tranne che per noi due, due cuori e una saletta. «Ho prenotato la nostra saletta», mi comunica, e io mi sciolgo. Federica Manzon, editor rivale di Mario e mia amica, alla quale regalo sempre ombrelli intonati alla sua biancheria intima, è gelosissima di noi, emi scrive inviperita «Sei ancora con quello?».
Mario mi porta a prendere le merendine al distributore, perché sa che adoro i cibi confezionati. Oppure a fare due passi tra le oche del lago artificiale, o a prendere un caffè al bar, dove spettegoliamo sugli altri scrittori. All’ora di pranzo mi porta in mensa, e offre lui, con la scheda. E poi restiamo a Segrate fino a tardi, fino alle 23, negli uffici deserti, finché non ci cacciano i vigilantes, un’atmosfera romantica, da thriller. A Mario piace restare fino a tardi, io lo chiamo Collateral, perché mi ricorda l’avvocatessa di Collateral. Recentemente sono passato a Colly, più intimo. Quando torno in albergo, per non farmi sentire solo, Mario mi manda su Whatsapp dei messaggi commoventi, per esempio delle notizie che ha trovato su Hitler, e mi addormento sereno, sentendomi una sola cosa, un solo corpo con Mario.
A proposito di corpo, la settimana scorsa mi sono accorto che il corpo dei caratteri del mio romanzo di Evangelisti era più bello, e mi sono incazzato. Gli ho detto: «Ma come, volete risparmiare carta con me e non con Evangelisti?». Mario si è informato, non la sapeva questa cosa del corpo di Evangelisti, e l’indomani mi ha chiamato e mi ha detto «Ho sistemato tutto, adesso hai il corpo di Evangelisti».
Oh Mario, dove sei? Mario perché non mi chiami? Ecco, questo è il problema. Non c’entrano le vacanze di Natale. Ultimamente mi ha mandato qualche messaggio, per carità, ieri anche una foto di un’opera d’arte nazista dal MADRE di Napoli, ma lo fa solo perché ancora non è uscito il libro, tra poco sparirà, lo so. Già non è più come prima, lo sento distante.
Ecco la verità sugli editor: o sono incapaci e falliti o sono come Mario, bravi ma puttane. Magari adesso Mario è lì nella saletta riservata con Corona, quel puzzone montanaro, a cui manderà messaggi montanari. Oppure è con Piperno, a cui manderà messaggi ebraici. Oppure con Desiati, a cui manderà messaggi di impegno civile. E spettegolerà di me. Che schifo, non ci posso pensare, mi viene da vomitare.
Mario, questa è la verità, dovrebbe essere solo mio, per sempre, invece è una solo una grandissima puttana. Peggio di una puttana, perché la puttana puoi riaverla ripagandola, mentre io per riavere le attenzioni di Mario e le coccole di Mario e l’amore di Mario e i messaggi su Hitler di Mario devo scrivere ogni volta un nuovo romanzo, e non un romanzo qualsiasi ma uno dei miei capolavori, mi devo dissanguare. L’unica arma che ho sarebbe spoileargli Breaking Bad, perché lui è ancora alla terza stagione. Potrei rivelargli per dispetto che Walter ucciderà Gus mettendo una bomba sotto la sedia a rotelle dello zio di Tuco. Ma non lo farò perché lo amo. Io spero di morire come Proust, subito dopo la parola fine del mio ultimo libro, pur di averlo lì, al mio capezzale, Mario, il mio solo editor, il mio Collateral.