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 2014  gennaio 07 Martedì calendario

IL MIO MAXXI, UNA PALESTRA PER IL CUORE DELL’ARTE


[Hou Hanru]

La direzione di Hou Hanru del tormentato e tormentone Maxxi non poteva cominciare con un mostra con un titolo più efficace e più adatto all’Italia di oggi: «Non basta ricordare». Esatto! Quindi Hou Hanru ha deciso finalmente di far dimenticare le polemiche che hanno accompagnato il grande museo italiano dalla sua nascita organizzando una mostra con la collezione, e compiendo un miracolo visto la qualità molto incostante di quest’ultima. Intrecciando arte e architettura, ha indicato che in futuro il Maxxi non sarà più questo luogo balcanizzato, ma avrà una sua unica identità dove arte, architettura e cultura contemporanea più in generale saranno rappresentate da una visione unica, la sua, come accade in ogni grande museo che si rispetti dove è il direttore a dettare (appunto) la direzione, e non le simpatie o i gusti di esperti sfusi. Lo abbiamo intervistato pochi giorni dopo la nomina, un po’ scombussolato dal cambio di fuso orario e culturale da San Francisco, dove dirigeva il dipartimento di arte del San Francisco Art Institute.
La sua anima nomade ha trovato pace?
«Chissà. A me piace lo stato di emergenza e di urgenza».
Beh, al Maxxi c’era sicuramente l’urgenza di un direttore internazionale per risolvere l’emergenza.
«Allora è il luogo perfetto per me!».
Ha curato mostre rivoluzionarie come «Cities on The Move» con Hans Ulrich Obrist nel 1997, ma anche una sezione della Biennale di Johannesburg dove aveva piazzato una mostra di video nelle bidonville di una città che stava rialzando la testa dopo l’apartheid, e anche «Zona d’urgenza» alla Biennale di Venezia del 2003. Cosa è cambiato in questi quindici anni?
«È cambiato il mondo, non solo quello dell’arte. “Cities on the move” fu una mostra che segnava la fine degli Anni 90 e l’inizio di una cultura che vedeva arrivare al suo centro modelli culturali completamente diversi da quello dominante anglosassone. Arrivava l’Asia, e poi l’America Latina e l’Africa».
Oggi?
«Oggi arriva un Nord Africa completamente trasformato, un Medio Oriente con una cultura islamica sempre più focalizzata e in cerca di aperture. Lo stesso Mediterraneo è completamente cambiato. Ecco dove voglio spostare lo sguardo del Maxxi, un museo nato quando questi cambiamenti si percepivano ma non erano ancora del tutto chiari».
Che posizione si trova a occupare questo museo oggi?
«Paradossalmente forse senza volerlo il Maxxi si trova a essere al centro di una trasformazione epocale, in particolare dell’identità europea: quindi è una posizione privilegiata da sfruttare».
L’arte italiana dove sta?
«È strano, l’Italia si è trovata ad avere una generazione di curatori molto influente a livello internazionale, mentre internamente gli artisti sembrano essersi indeboliti. Ma vedo che molti curatori tornano per condividere la loro esperienza e quindi immagino che anche la nuova generazione di artisti avrà la possibilità di rafforzarsi e affermare la propria rilevanza. È normale che, con la proliferazione di tantissimi nuovi centri artistici, quelli che consideravamo più forti siano diventati più deboli. Qualche mese fa ero a Auckland in Nuova Zelanda per curare una Triennale e là la comunità artistica è vivacissima e autonoma, non preoccupata troppo di quello che accade in quelli che erano un tempo considerati i centri dell’Impero - Londra, New York, Parigi».
L’architetto libanese Bernard Khoury ha definito l’edificio del Maxxi perfetto per una grande palestra ma non per un museo.
«Sicuramente è un edificio abbastanza problematico, particolarmente se lo paragoniamo al classico convenzionale “cubo bianco” delle gallerie di Chelsea o di Londra. Ma a me piace questa connessione che ha con la città, usando la metafora dell’autostrada o del raccordo anulare che va molto di moda».
Un edificio che è una sfida all’arte?
«Più che una sfida all’arte, è una sfida a ripensare il vecchio modello della mostra d’arte».
In un luogo come l’Italia e in particolare Roma che rapporto suggerisce di tenere verso la contemporaneità?
«Bisogna sempre mantenere una certa distanza. Nel senso che siamo così appiccicati alla contemporaneità da non riuscire a vederla con chiarezza, quindi è bene fare un passo o due indietro».
Si rischia di alienare il pubblico volendo essere troppo contemporanei e sperimentali?
«Certo, il rischio di trasformare un museo pubblico in un laboratorio, e quindi di respingere un pubblico più vasto, c’è. Ma io sono convinto che si possono presentare importanti e popolari mostre in modo diverso e renderle fruibili non solo attraverso il solito marketing ma più che altro attraverso un forte e serio lavoro didattico di approfondimento».
Lei è un fautore della velocità. Roma è una città molto, molto lenta.
«Sì, a me piace la velocità e spesso mi chiedo: ma quanto tempo si può stare a guardare un quadro? La velocità non è un’unità assoluta: ci sono tanti diversi tipi di velocità, da quella del pensiero a quella del piacere o della conoscenza. Qui a Roma credo che sarà possibile sperimentare nuovi tipi di velocità legati alla fruizione dell’arte, dell’architettura e della cultura in generale».
Che mestiere è quello del curatore e direttore di un museo di arte contemporanea?
«Il nostro è un lavoro che ultimamente è andato un po’ alla deriva, finendo col parlare solo agli eletti e ai nostri colleghi. Credo si debba invece ritornare alla funzione originale del curatore, che era quella di osservare la cultura e l’arte e trovare metodi e occasioni per condividerla e ridistribuirla a un pubblico molto più vasto».
Ai turisti dell’arte?
«Esatto, anche a loro. E qui a Roma credo che ce ne siano abbastanza, no?».
Quindi questo Maxxi potrebbe essere una palestra davvero per l’arte e la cultura.
«Penso proprio di sì. Il mondo dell’arte ultimamente ama far vedere i muscoli, ma io vorrei una palestra non per mostrare i muscoli ma per far funzionare il nostro cuore meglio, che credo sia in generale sempre più sano».
Mi raccontava una volta che negli Anni 70, quando ancora viveva a Guanzhou con la sua famiglia, la sera vi rinchiudevate in una stanza della casa ad ascoltare Beethoven che a quel tempo era proibito...
«Faccio ancora cose simili, provo sempre a tenere qualcosa di segreto da ascoltare o guardare. È un esercizio che mi consente di rimanere all’erta davanti al pericolo sempre in agguato di sentirsi troppo di successo. Io mi sento sempre un “outsider” che tenta di sopravvivere alla tentazione di diventare un “insider”. Un rischio sempre più grande oggi che l’outside, il fuori, non esiste più. L’Impero è diventato troppo grande e contiene tutto».
È brutto ricordare?
«No, ma non è abbastanza. Non si può passare il tempo ad ascoltare Beethoven chiusi in una stanza, per quanto bello possa essere».