Carlo Patrignani, L’Unità 6/1/2014, 6 gennaio 2014
L’ECONOMISTA SPARITO NEL NULLA
CENTO ANNI FA, IL 6 GENNAIO 1914, NASCEVA A PESCARA L’ECONOMISTA che voleva chiudere le borse, luogo degli «incappucciati», i predatori dei risparmi della gente, che si muoveva in tram per vedere in faccia la gente, che teorizzava: poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio e non si può non prendere atto di un recente riflusso neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore e che nel toccare con mano «la solitudine del riformista», smise di fare la passerella in convegni anche di alto livello infastidito dal trasformismo di tanti un tempo marxisti ortodossi fattisi improvvisamente «consiglieri del Principe», del neoliberismo.
Parliamo di Federico Caffè, l’economista misteriosamente scomparso nel nulla il 15 aprile 1987, che pur non avendola mai perseguita, ha di fatto dato vita ad una scuola del «pensiero economico» di origine keynesiana ma continuamente modellata sui bisogni e le aspettative della gente comune: lavorò assiduamente al tema del Welfare con particolare attenzione agli aspetti sociali ed alla distribuzione dei redditi.
«Come economista tengo molto alla mia autonomia. Lo Studio e la ricerca continua sono certamente importanti tanto quanto è tenere ben saldo e fermo il rapporto umano con le persone. L’economista non dovrebbe mai aspirare, ci ammoniva Caffè, ad essere e a fare il consiglie del Principe», spiega Bruno Amoroso, autore di Euro in bilico, di L’Europa oltre l’Euro e di Figli di Troika. Gli artefici della crisi economica, che di Caffè è stato oltre che allievo anche amico personale: a lui ha dedicato Le riflessioni della stanza rossa un libro ricco di confessioni e ricordi sui loro frequenti incontri danesi.
Perché Amoroso proprio su consiglio di Caffè scelse nel 1972 di andare a Copenaghen ad insegnare economia all’Università di Roskilde dove ebbe la cattedra di Jean Monnet e di cui oggi a 78 anni ben portati è professore emerito.
Erano gli anni ’70, ricorda, e Caffè esperto di finanza, leggeva le Relazioni annuali della Banca d’Italia, dove aveva lavorato, come nessun altro, con la lente d’ingrandimento e affidava poi i suoi minuziosi commenti ad un giornale politicamente a lui distante Il Manifesto per garantirsi la totale autonomia e libertà d’espressione. Bene, allora a dirigere la Banca d’Italia c’era «l’elegantissimo» governatore. Guido Carli che fu criticato a sinistra per non esercitare come avrebbe dovuto le sue funzioni di controllo e vigilanza sul sistema bancario che mediante «il segreto bancario», permetteva ai grandi imprenditori, l’occultamento dei capitali: i profitti anziché la strada virtuosa dei reinvestimenti nelle attività produttive, prendevano la via dell’evasione fiscale e della rendita finanziaria, assai più redditizia.
Caffè, allora, di fronte «a quelle che chiamava forme di “rapina” chiedeva per bloccare quei movimenti sediziosi aggiunge Amoroso l’uso degli strumenti cautelativi tra cui la sospensione delle attività borsistiche». Oggi come allora «toccare» le istituzioni bancarie è lesa maestà, come mettere in discussione l’euro. «Si rischia l’accusa di fare del populismo», dice. A Francoforte ora siede un «elegantissimo» presidente della Bce,-Mario Draghi, che a suo tempo fu allievo di Caffè.
«Sapete quale fu la tesi di laurea che Draghi, su indicazione di Caffè, discusse? L’euro, quando rivela Amoroso della moneta non se ne parlava. E sapete come terminava la tesi? Che se adottata, la scelta della moneta unica, appunto l’euro, sarebbe stata sbagliata e avrebbe procurato divisioni e danni alle popolazioni. Draghi ha preso un’altra strada rispetto alla mia».
Sul futuro della sinistra Amoroso non vorrebbe esprimersi perché «faccio l’economista come mi ha insegnato Caffè e non il consigliere del Principe».
Poi, memore della lezione del «riformista» Caffè che nel 1945 fu consulente del ministro per la Ricostruzione, Meuccio Ruini nel brevissimo governo di Ferruccio Parri, azzarda: «bisognerebbe ripartire dalla Costituzione del ’48. È necessario un grande sforzo di verità che sappia fondere insieme, così come fu con la Resistenza e la Costituente, proposte e movimenti popolari, scegliendo le idee sulla loro capacità di camminare sulle gambe delle persone coinvolte. Così come avvenne nel 1945 è necessario riproporre un progetto europeo di libertà ed uguaglianza, giustizia sociale e solidarietà che contrasti e travolga quello della Grande Germania».
Insomma, una nuova Resistenza? «Sì occorre la nascita di una nuova resistenza, l’unione di tutte le forze popolari: sarà la partecipazione a questa nuova resistenza a segnare i confini dell’appartenenza dei movimenti e dei partiti al nuovo arco costituzionale, all’elaborazione di un patto costituzionale così come fu dopo il 1945».
Sembrerebbe finita, ma Amoroso si fa per un attimo «consigliere», della sinistra non solo culturale precisa e suggerisce: «L’Europa di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli nacque dal bisogno di contrapporre all’idea nazista, che ebbe in Martin Heidegger il suo ispiratore, della Grande Europa, l’idea internazionalista di un’Europa di pace e solidarietà, poi cita “tre voci”, gli “innominati” dell’economia e della politica: Caffè, Augusto Graziani e Paolo Sylos Labini. Tre voci rapidamente isolate e marginalizzate a sinistra, che non hanno mai confuso il diritto con l’economia, le teorie con il progetto politico, ma che hanno tentato e potentemente contribuito a servirsi di questi strumenti per tenere la dritta di un processo di costruzione democratica e sociale. La loro biografia documenta la loro attiva partecipazione e intreccio con il processo costituzionale. Il loro impegno di studio ha contribuito in modo veramente innovativo, con una innovazione a servizio dei cittadini e non del principe o dei baroni di turno, ad aprire nuove vie alla riflessione e alla elaborazione politica».