Chiara Affronte, L’Unità 6/1/2014, 6 gennaio 2014
«FUORI DAL CARCERE DIAMO UN LAVORO A CHI COME NOI VUOLE RINASCERE»
Alle 10 del mattino la serranda della rosticceria «Gnam Gnam» in via Petroni a Bologna, nel cuore della zona universitaria, è a metà: in vetrina ci sono già alcuni piatti pronti e un po’ di panini. Dentro Gianfranco e Alfonso sono al lavoro per preparare gateau di patate, pasta al forno e leccornie siciliane e vegetariane. Questo è il loro nuovo lavoro da qualche settimana, il primo dopo molto tempo.
Alfonso, 68 anni, di cui 28 passati in carcere, è finalmente fuori da una manciata di settimane. Gianfranco, che di anni ne ha 60, 13 dei quali passati dietro le sbarre, è in regime di affidamento, dopo un periodo di semilibertà: deve rientrare alle 23. Ma di giorno realizza un sogno meditato da tempo: costituire un’associazione - che oggi si chiama Chiusi Fuori -, aprire un’attività legata alla gastronomia e cercare di aiutare anche altri detenuti ed ex detenuti a dare una svolta vera alla loro vita. «Solo lavorando si può davvero uscire dal tunnel, sennò l’unica strada è tornare a delinquere: è successo a tutti noi e continuerà a succedere», scandiscono i due amici, che del sogno diventato realtà hanno parlato a lungo durante le ore e mezza d’aria nel carcere della Dozza, a Bologna, dove si sono conosciuti.
«Facevamo footing sul prato - visto che alla Dozza un po’ di verde c’è - e intanto fantasticavamo sul futuro», aggiunge Alfonso. A dare loro una mano è stata l’avvocato di Gianfranco - Chiara Rizzo - che ha messo insieme anche soci fondatori “normali” oltre ai 5 detenuti.
Non potrebbero essere più diversi, i due amici, per temperamento e per storia personale: Gianfranco, romano, uno «stravagante», come lo descrive il suo avvocato Chiara Rizzo, è stato un rapinatore, ma ha sempre coltivato la passione della cooperazione come strumento di vita e di lavoro. Così forte che è riuscito a lavorare per due anni in un agriturismo mentre era latitante. Alfonso, siciliano, è stato dentro per un reato passionale, ma ha collezionato anche reati politici legati all’estrema destra, a partire dalla sua partecipazione al golpe Borghese negli anni 70. Le loro biografie sono agli antipodi, quasi per tutto, ma il progetto che hanno in testa - ora che si sentono fuori per sempre da certi “giri” - è lo stesso: «Alleviare la sofferenza, contenere la disperazione e offrire la possibilità di ricostruirsi una vita dopo il carcere a chi, come loro, ha compiuto dei reati».
Perché di una cosa sono certi: «Senza una casa, un lavoro, senza una famiglia che accolga, è evidente che una persona torni a delinquere appena uscita dal carcere». Così lo spiegano, loro: «Ti chiudi la porta dietro la schiena, con la tua valigia, quando va bene, o col sacchetto nero sulle spalle, come si vede nei film - dice Alfonso - hai forse 30 euro in tasca che ti bastano per qualche giorno, e un libretto con le indicazioni su dove puoi andare a farti una doccia. E poi?». «Se torni nella tua città gli “amici” ti vengono a cercare, ed è fatta», aggiunge Gianfranco, che infatti a Roma non vuole tornarci più: «Non voglio storie...».
Nicola, anche lui in regime di semilibertà, passa da «Gnam Gnam» a trovare i due uomini per alcune dritte culinarie e approfitta per dire la sua: «Non c’è niente di rieducativo nelle nostre carceri, sono strutture solo punitive, anzi afflittive, talvolta durissime a seconda dei direttori di turno: hai pochi minuti di telefonate consentite a settimane, avvocato compreso. Così è impossibile anche tentare di mantenere un contatto con la famiglia, se ce l’hai...». Per non parlare del sovraffollamento, su cui anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano insiste da tempo affinché si trovi una soluzione. «Quando va bene si sta in 3 o 4 in celle da 8 metri quadri: almeno uno è costretto a stare a letto perché manca lo spazio. C’è l’ora d’aria la mattina, un’altra dopo pranzo e alle 15 la giornata è finita», racconta Gianfranco. «Non ti resta che pensare, deprimerti o riempirti di odio», aggiunge Alfonso.
Nella loro schiera di conoscenze, la percentuale di chi si libera di un passato costellato di reati è «al massimo del 5%: tutti gli altri ci ricascano e fanno dentro e fuori», assicura il più anziano.
Lavorare e rinascere
Il punto è che «le istituzioni non si occupano né della rieducazione all’interno del carcere, né del dopo: quando accade è grazie alla lungimiranza di un direttore o alla volontà dei cittadini», fa sapere Alfonso, mentre ricorda l’esperienza tutta bolognese nata lo scorso anno quando tre aziende, colossi del mondo della meccanica automatizzata, Marchesini Group, Ima e Gd, insieme alla Fondazione Aldini Valeriani, hanno dato vita ad una società per produrre dentro il carcere di Bologna pezzi destinati alle tre aziende, assumendo con contratto di lavoro alcuni detenuti. «Un’esperienza importantissima, che dà una speranza, perché una volta uscito dal carcere, se ti metti con tutta la buona volontà a cercare un lavoro, quando ti presenti e sulla tua carta d’identità c’è scritto che sei residente in via del Gomito (dove si trova la Dozza, ndr) il colloquio si chiude all’istante», fa sapere Gianfranco. E Alfonso aggiunge: «Non biasimo queste persone, capisco i cittadini, perché dovrebbero fidarsi, rischiare? A mancare sono le istituzioni che non se ne occupano...».
Alfonso, in un periodo fuori dal carcere, era riuscito a mettere in piedi un’attività, con la sua compagna, ma poi è andata male. La passione politica e quella amorosa l’hanno «fregato»: «Non avrei mai potuto rubare neanche un centesimo, non sarei riuscito mai ad improvvisarmi ladro - assicura - Ma ho partecipato al golpe Borghese negli anni 70», rivela. Una storia pesante: «È stato molti anni fa: a 16 anni militavo nella destra giovanile...». Gianfranco ha addirittura lavorato in una cooperativa agricola in montagna da latitante: «Avevamo messo su un allevamento di tori, una macelleria; io ero latitante ma conoscevo i due soci che mi hanno preso dentro: andava benissimo, ma poi i loro hanno litigato, e ci ho rimesso pure io. Rimasto di nuovo senza niente, la strada per me, era una sola... Ricominciare a delinquere e, durante un reato “in trasferta”, sono stato arrestato a Cesena e spedito alla Dozza».
La passione per la cucina accomuna entrambi: «Io alla Dozza ho fatto il cuoco per molto tempo», racconta Gianfranco che comincia a scalpitare: «Siamo in ritardo, devo preparare le cotolette».
Il guadagno puro è ancora scarso, ma i due amici non perdono la speranza, anzi: «Vogliamo andare oltre, aiutare gli altri che non sanno dove sbattere la testa, e ci raccomandiamo con le vecchie “conoscenze” del carcere che vediamo transitare in zona, di lasciare stare, vogliamo mostrare che una possibilità c’è». Il loro obiettivo è quello di trasformarsi presto da associazione in cooperativa per avere più possibilità di andare avanti. E magari ingrandirsi.
«Chissà, aprire attività in altre zone della città. Qui di passaggio ce n’è tanto, ci sono gli universitari: abbiamo scelto questo posto perché era più accessibile, molto visibile, anche se delle istituzioni locali non si è visto quasi nessuno, ma noi guardiamo avanti», assicura Gianfranco.
I loro figli sanno tutto di loro, oggi. Anche i nipoti: Alfonso ne ha già vari: «Sono anche bisnonno», dice sorridente. Paura che possano fare gli stessi errori? «Credo che loro più di altri abbiano capito che non è proprio il caso, ma, certo, se dovesse accadere, sarebbe un dolore immenso».