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 2014  gennaio 06 Lunedì calendario

1914, CENT’ANNI FA MORIVA L’EUROPA


Cent’anni fa finì l’Euro­pa. Dico l’Europa co­me centro del mon­do e faro della civiltà universale. Il 1914 è una data memorabile e funesta per l’Eu­ropa. Spengler fu impreciso quando descrisse il Tramonto dell’Occidente : con la Grande Guerra tramontò l’Europa, non l’Occidente che anzi con gli Stati Uniti divenne per tutto il Novecento il fulcro del mon­do. E a tutt’oggi la ripresa ameri­cana, la vitalità del Sudameri­ca, la crescita del Brasile, il pa­pato argentino, sono segni di un Occidente che non tramon­ta. Fu l’Europa invece a tramon­tare, e morire a causa dei suoi stessi figli, storici e ideologici, tecnologici, economici e milita­ri. Il 1914 fu lo spartiacque tra il mondo di ieri con l’Europa sul trono e il mondo delle masse dominate dalle ideologie e dai sistemi totalitari, e poi dai con­sumi e dai sistemi tecno- finan­ziari. La Prima guerra mondia­le che scoppiò nell’estate del 1914 può essere considerata gloriosa alla luce di alcune sin­gole nazioni e del loro irredenti­smo che, come per l’Italia, por­tava a compimento il Risorgi­mento; ma fu davvero funesta per i destini della civiltà. Dalla prima guerra mondiale nac­que infatti il comunismo e poi il nazismo, mentre da noi era na­to il fascismo. Con la Prima guerra mondiale cominciò il tramonto delle potenze euro­pee, comprese le vincitrici in ambedue i conflitti mondiali. E divampò quella guerra civile europea, come la chiamò Nol­te, che dilaniò l’Europa e finì il 1945.Gli ultimi giorni dell’uma­nità non riguardarono solo la fi­nis Austriae , come pensò Karl Kraus, ma coincisero con la fi­ne dell’homo europeus, che venne colonizzato. Dopo di lui, vi sarà il proletario comunista e l’ homo sovieticus ,la folla nazio­nalista e l’ homo ideologicus , la massa consumista e l ’homo
americanus , più il risveglio asiatico. Tutto quel che ha af­fossato l’Europa è nato da una costola dell’Europa medesi­ma: l’America come il comuni­smo, il nazismo come la bom­ba atomica, il capitalismo co­me la tecnica e la finanza. «La luce si sta spegnendo in tutta Europa e non la vedremo più riaccendersi nel corso della no­stra vita» scriveva allora sir Ed­wua­rd Grey e lo diceva da segre­tario di stato britannico. Lo cita Margaret MacMillan, autrice di 1914 , da poco tradotto in Ita­lia da Rizzoli (pagg.784, euro 28) che narra la catastrofe euro­pea. La dolcezza di vivere del Mondo di ieri , su cui aveva scrit­to Stefan Zweig, e che qui rie­cheggia, è in realtà la stessa no­stalgia che nutriva Talleyrand per l’epoca precedente al 1789: «chi non ha vissuto negli anni prima della rivoluzione non può capire cosa sia la dolcezza del vivere». Rimpianti e cata­strofi sono ciclici della storia. Segnano la fine di un mondo, non del mondo.
L’Europa si è unita quando aveva già cessato di essere vi­vente, si era spento da tempo il fuoco vivo che l’animava; si è unito il suo corpo esanime, co­me si ricompone un cadavere nell’obitorio dell’economia, tramite lo stoccaggio delle na­zioni e lo scambio tra civiltà e contabilità.C’era molta più Eu­ropa quando le nazioni euro­pee si avversavano che adesso; c’era più scambio tra le culture e le letterature nazionali al tem­po dei nazionalismi e perfino sulle trincee della grande guer­ra che in seguito, dopo la pax mondiale e l’unione europea. Hanno fattodi più per l’Europa l’Erasmus,l’emigrazione inter­na e i voli Ryan air che l’euro-Parlamento, la Commissione e la Banca centrale europea. E fanno di più per la coscienza eu­ropea la minaccia islamica, il pericolo cinese e la concorren­za asiatica che i trattati di Scen­ghen, Maastricht e Bruxelles.
È giusto che si commemori in grande stile quel centenario e si ricordi in tutta Europa la de­flagrazione della Prima guerra mondiale nel 1914. Ma comme­morare non vuol dire, soprat­tutto in questo caso, celebrare o addirittura festeggiare: l’Eu­ropa ha ben poco da festeggia­re del suo declino. Si ridusse a salotto nobile ma sempre me­no centrale del pianeta, poi per­se le colonie e gli imperi come i capelli e il vigore della gioven­tù, diventò periferia nell’era del bipolarismo mondiale tra Usa e Urss, fu nuovamente scomposta nei nuovi gruppi fondati sulla potenza industria­le ed economica, come i G8, poi fu assorbita nel conflitto tra Oc­cidente e Islam e infine schiac­ciata­nella nuova geografia pla­netaria tra Nord e Sud del mon­do. Sopravvive come continen­te e come entità burocratico­monetaria, come reperto stori­co, ma quel che ne faceva il faro del mondo si è spostato altrove o si è spalmato nel mondo.
A scuola,il 1914 segnava l’en­trata della storia nel presente. Si datava così l’inizio dell’età contemporanea e si dichiarava definitivamente defunto il Pas­sato a partire dal 1914. Quella data accorciava il secolo viven­te perché nei libri di testo, pri­ma ancora che con Eric Hob­sbawm, il 1914 inaugurava il Se­colo Breve, che cominciava quattordici anni dopo la sua na­scita anagrafica, lasciando che l’Ottocento si allungasse fino alle porte della Grande Guerra.
Nella mia storia personale il 1914 era legato a tre cose: era l’anno che saltava agli occhi da bambino quando bevevo alle fontane perché quella data era incisa sul ferro di tutte le pom­pe d’acqua della sitibonda Pu­glia, a suggellare l’Acquedotto voluto da Matteo Renato Im­briani che segnava l’entrata della Puglia nella modernità li­quida. Il 1914 era poi l’anno in cui era nato mio padre, e que­sta sua data mi confermava da bambino che i contemporanei partivano da lui, e il passato in­tero, l’età dei nonni e degli avi, si confondeva con l’antichità. Infine, quando avevo sedici an­ni, il 1914 fu l’anno in cui era na­to Giorgio Almirante, il mito vi­vente della mia prima gioven­tù. In tutti i casi, scolastici e per­sonali, idrici e affettivi, il 1914 coincideva con l’Inizio. Solo con la maturità compresi che dietro quell’Inizio si nasconde­va in realtà una ben più grande fine. E non era semplicemente la fine degli imperi centrali, co­me insegnavano a scuola, ma la fine di qualcosa di più impor­tante, che non riguardava solo l’Austria e l’Ungheria, la Prus­sia e la Russia. Ma era la fine di quella civiltà per secoli chiama­ta Europa, troppo grande per l’era dei nazionalismi e troppo piccola per l’era degli interna­zionalismi, troppo amalgama­ta per dividersi in razzismi e troppo differenziata per unifor­marsi nella globalizzazione. Fuori da ogni grottesco revan­scismo, è bello coltivare la no­st­algia dell’Europa nel centena­rio della sua scomparsa. Maga­ri confidando che la storia non sia solo una folle corsa di sola andata.