Diego De Silva, Il Fatto Quotidiano 6/1/2014, 6 gennaio 2014
IL DESTINO PIÙ TREMENDO È RESTARE INEVASE
Cos’è questo? Dove siamo? Un vagone, forse? Non so, potrebbe anche essere. Fra l’altro non c’è luce, non si vede. Stiamo viaggiando, forse, ma siamo in troppi, ammassati uno sull’altro; oppure no, siamo ancora qui dove ci hanno stipati, in attesa di decidere cosa fare di noi, e magari questo carcere è una soluzione temporanea.
Ho sentito la voce di quello che chiudeva la porta quando ci hanno buttati qui dentro, e da allora più nessuno ha aperto. È stato un brutto rumore, quello; definitivo, sentenziale, come il colpo del martello di un giudice o di una cella sbattuta (le porte delle galere sono fatte per essere sbattute, non chiuse). Prima, per un po’, fuori c’era gente che urlava, imprecava, sbuffava, eseguiva ordini controvoglia (si aspettavano forse che la gestione di questo carico fosse più facile di come si è rivelata); poi quel rumore di ferro, e più niente.
È insopportabile questa reclusione, perché non la capisco. Non me la spiego. Non ho fatto niente per meritare questo sequestro, non dovrei essere qui, mi manca l’aria, la luce, lo spazio, e il peggio è che se mi perdo, sarà come se non fossi mai esistita. Preferirei essere dimenticata, piuttosto: almeno avrei fallito, ci avrei provato. Non sopporto d’essere un’occasione mancata, un’intenzione innocua, una povera speranza. Io, che avevo il compito eversivo di rimarginare una ferita, riavvicinare, uccidere un orgoglio offrendogli la morte di un altro, riaccendere una felicità a cui sarebbe bastato tanto così per divampare.
Sì, lo so che è un’idea illusoria, datata e patetica (oltre che controtecnologica: ma quando si parla di tecnologia – si sa – si rimanda sempre il discorso ad altra sede, per cui facciamolo anche adesso), ma siamo in tante, qui dentro, partite con questo scopo: informare, riferire, dire come sono andate veramente le cose e come ancora stanno, alla faccia di quel che è stato, di quel che sembra, della versione ufficiale dei fatti. Siamo confidenti, informatori, facciamo il lavoro sporco della verità. Portiamo le parole di cui ci si vergogna. Riapriamo casi archiviati, chiediamo giustizia. Quando tutto è evidente, deciso, superato, e sembra non ci sia nessuna buona ragione per tornare indietro (ma gli infelici fingono di vivere e lo sanno, perché hanno quella mutilazione a cui non ci si abitua, e non vogliono credere che sia finita, anche se si comportano come se l’avessero accettata e si fossero convinti della sua inevitabilità, e così camminano, lavorano, si riorganizzano la vita, rispondono al telefono, parlano, ridono e sorridono, prendono appuntamenti con gli amici, cercano qualcun altro da incontrare con cui ricominciare ma ogni volta si fermano, rinunciano e tornano in quella solitudine che non capiscono); quando non c’è più voce per parlare (perché se alzassero il telefono e sentissero la voce di chi amano dall’altra parte attaccherebbero all’istante), è allora che tocca a noi. Fatte ancora di carta e penna, perché ci serve la calligrafia. Dobbiamo apparire ordinate e sbilenche, lavorate e trascurate, tremolanti e rigide. Per dare l’idea del corpo che spera nello scrivere. Delle mani che ci guidano verso chi dobbiamo raggiungere. Del destino a cui ci consegnano. È per questo che spesso non siamo neanche la bella copia di noi stesse, e restiamo in originale, piene di cancellazioni, riscritture, macchie; a volte di strappi.
C’è un momento, quello più vicino alla conclusione, in cui si rinuncia ad ogni velleità di apparenza, di forma; di più: a qualunque abito. E si dimentica addirittura di firmare, tradendo come un desiderio di spogliarsi, ammalarsi, dormire all’addiaccio, perdere il nome e dire soltanto: “È qui che sono, non ho più niente, torna a prendermi”. Ed è infatti alla fine, nello spazio (vuoto, più che bianco) che segue le ultime parole, che diciamo quello che vale davvero la pena sentire. È in quel momento che il destinatario accetta o rifiuta, dice sì o no, fa la rivoluzione o resta dov’è, lasciando le cose come stanno. Ma il nostro destino più triste è restare inevase.
“Inevase”: buffo come un aggettivo così smaccatamente burocratico esprima con tanta esattezza la condizione in cui mi trovo adesso. Una lettera inevasa è una lettera reclusa. In attesa di consegna. Deve evadere, per essere qualcosa. Vorrei, dovrei uscire da questa prigione, correre da chi mi aspetta e non sa di aspettarmi, arrivare a destinazione, affacciarmi alla sua buca come un clandestino, un portatore di felicità, essere trattata con segretezza, nascosta fra la corrispondenza ordinaria, i depliant pubblicitari, le riviste in abbonamento e i volantini delle offerte di lavoro a domicilio, scartata nella riservatezza di un bagno, letta voracemente e riletta più e più volte subito dopo, provocare un mancamento, un’accelerazione cardiaca, un affanno, una necessità improvvisa quanto insensata di aprire il rubinetto e sentir scorrere l’acqua, una voce dall’altra parte della porta che domanda: “Va tutto bene là dentro, hai bisogno di qualcosa?”, perché è già passato troppo tempo e qualcuno in casa si è preoccupato (forse intuisce un’anomalia, il sintomo di una ricaduta: sa quanta sofferenza c’è stata, e ha paura che ritorni).
E poco conta che io funzioni, che la verità che rivelo sovverta le regole che intanto hanno ristabilito l’ordine della tollerabile infelicità in cui nulla fa più male perché nulla succede, riavvicinando chi non ha mai smesso di volersi. Io non sono una garanzia, non prometto, non posso mantenere né invertire processi avviati (quando questo accade, sarebbe probabilmente successo anche senza di me). Quel che importa è che io arrivi a destinazione, che chi deve sapere sappia. Poi, che mi cestinino, mi brucino o mi nascondano in un cassetto (dove più spesso finisco): è lo stesso. Non servo ad altro che a dire: “Non è stato un errore, non ci siamo sbagliati, e non importa cos’è successo, abbiamo sempre avuto ragione, io e te”. Sono solo queste, le parole che tutti, prima o poi, aspettano. Quelle che veramente contano. Per questo si perdono così facilmente.
Chissà cosa succederebbe se qualcuno, un giorno, prendesse un’iniziativa originale. Cosa direbbero gli addetti alla raccolta e allo smistamento, se si trovassero fra le mani una semplice lettera con su scritto (magari con la stampiglia di un timbro), la parola “Fragile”. La prenderebbero sul serio? La tratterebbero con la dovuta delicatezza? S’impegnerebbero perché non vada persa? L’aiuterebbero a evadere?