Bruno Gambarotta, La Stampa 6/1/2014, 6 gennaio 2014
GERUSALEMME 1964 A TU PER TU CON MONTINI E UN RISOTTO ALLA MILANESE
Era il primo viaggio in epoca moderna di un Papa fuori dai confini dell’Italia e la Rai affrontò l’evento come una sfida. Ne parlo perché ho fatto parte di quella spedizione; nel 1964, per parafrasare Gabriel García Márquez, ero un cameraman felice e sconosciuto.
Ero l’ultimo arrivato nella squadra e perciò, com’è giusto, ero assegnato ai compiti meno impegnativi. Issato su un’alta torre di tubi Innocenti, dovevo riprendere dall’alto l’arrivo di Paolo VI alla porta di Damasco.
Sceso dall’auto, il Papa avrebbe dovuto iniziare a piedi il percorso della Via Crucis. Ero lì da ore e il Papa non arrivava; sotto di me, un reparto di soldati giordani, provava e riprovava uno schieramento mentre i comandanti litigavano tra di loro.
L’auto che trasportava Sua Santità era così pressata dalla folla che Paolo VI non riusciva a uscire. C’era gente sdraiata sul cofano. Dopo molti sforzi gli addetti alla sicurezza sono riusciti ad aprire lo sportello e a fare uscire il Papa che si è incamminato mentre dietro di lui il piccolo cardinale armeno Aganian è stato buttato a terra.
Il 5 gennaio, penultimo giorno del pellegrinaggio, era in programma lo storico incontro fra il Papa e Atenagora I, patriarca di Costantinopoli, previsto alle 17 presso la Legazione Apostolica situata accanto all’orto del Getsemani. L’accumulo di ritardi nel corso della giornata fece slittare l’evento di tre ore, creando nervosismo nei miei capi. Dovevamo smontare l’impianto e spostarci di 30 chilometri per andare a Betlemme dove all’alba del 6 gennaio il Papa avrebbe officiato la Santa Messa nel santuario della Natività prima di rientrare a Roma. Ero stato collocato su un piccolo trabattello sulla porta esterna della Legazione per riprendere l’arrivo dei due protagonisti. All’interno, in una sala affollata all’inverosimile di inviati e di fotografi, si svolse l’incontro pubblico. Poi, fuori tutti; il colloquio proseguiva senza testimoni. Sennonché, nella generale concitazione, il microfono che era servito a diffondere i reciproci saluti, era rimasto aperto. Così io, avendo ancora le cuffie in testa, ho sentito la prime frasi che si sono scambiati in un francese scolastico i due santi uomini.
Solo poche battute, prima che l’ingegnere che dirigeva i lavori, non solo mi ordinasse di togliere le cuffie ma si facesse dare la mia parola d’onore che mai avrei rivelato quello che avevo ascoltato. Impegno che ho sempre onorato. Il destino aveva in serbo per me ancora un incontro ravvicinato con il Santo Padre. Terminata la registrazione, nel frenetico smontaggio dei mezzi, era stato dimenticato nella sala dell’incontro un piccolo baule contenente l’obiettivo zoom di una telecamera. Toccava a me l’incarico di recuperarlo.
Entro, sto per scostare una tenda quando intravedo che in quella sala le suore avevano allestito un tavolo da pranzo e stavano servendo a Sua Santità un risotto alla milanese. Decido di attendere che abbia terminato in santa pace di mangiare, sennonché sento arrivare dall’esterno la voce concitata del capo squadra che domanda: «Dove si è cacciato Gambarotta? Se fra dieci minuti non si fa vivo noi andiamo». Vogliamo scherzare? Mi faccio coraggio, scosto la tenda ed entro; il Papa è lì, a tre metri, alza il viso e smette di mangiare. Io dico, indicando la scatola posata a terra: «Santità, lo zoom». Lui non replica, in quel soggiorno in Giordania doveva averne viste di tutti i colori, un’infrazione al protocollo in più o in meno non faceva differenza. Mi chino, afferro l’oggetto, tento una specie di genuflessione ed esco camminando all’indietro per non voltargli le spalle. Mi domando come mi sarei comportato se Sua Santità mi avesse rivolto la parola dicendo: «Vuol favorire?». A distanza di cinquant’anni non so ancora darmi una risposta.