Cecilia Zecchinelli, Corriere della Sera 6/1/2014, 6 gennaio 2014
LA «GUERRA DELLE PRINCIPESSE» CHE TRAVOLGE IL BANGLADESH
La guerra tra le due donne più potenti del Bangladesh va avanti da oltre vent’anni. La premier 66enne Sheikh Hasina e l’ex premier Khaleda Zia, di due anni più anziana, dal 1990 si sono alternate al potere e odiate apertamente. Ma se in passato la saga delle due «battling Begum», dal termine turco per designare le musulmane di rango, è stata spesso oggetto di scherno o insofferenza anche in patria, gli ultimi sviluppi della loro battaglia sono drammatici. Ieri, giorno delle elezioni legislative, la violenza ha travolto di nuovo il Paese e i morti sono stati almeno 22, dopo le tante vittime — si parla di 150 — già registrate durante la lunga campagna elettorale. Decine di migliaia di manifestanti hanno bruciato centinaia di seggi, lanciando molotov e scontrandosi con le forze dell’ordine che nonostante il dispiegamento massiccio (50 mila uomini armati) non sono riuscite a contenere la rabbia degli oppositori a Sheikh Hasina.
La violenza era per altro annunciata: la premier in carica dal 2009 (senza contare i precedenti mandati), leader del partito populista-socialista Awami League, aveva infatti cancellato la consuetudine introdotta nel 1991 e seguita poi da tutti i primi ministri di dimettersi prima del voto affidando il governo a un esecutivo ad interim che vigilasse sulle consultazioni. Quasi tutte le altre formazioni, guidate dalla più forte tra loro ovvero dal Bangladesh Nationalist Party (Bnp) di cui è leader Khaleda Zia, avevano lanciato proteste, indetto scioperi generali e chiesto l’annullamento del voto ritenuto una «farsa scandalosa». Vista la risposta negativa della premier, l’opposizione ha boicottato le elezioni. Tutti a casa, anzi tutti nelle strade a protestare.
Senza oppositori, così, la Awami League ha vinto automaticamente in 153 circonscrizioni su 300. Nelle altre ha avuto comunque la maggioranza. E mentre il Bangladesh brucia e la violenza dilaga, il partito di Shekh Hasina ha definito il risultato «una grande vittoria per la democrazia». Nemmeno l’astensione di massa (oltre il 70%), nè la decisione dell’Unione europea, del Commonwealth e degli Stati Uniti di non inviare osservatori vista l’evidente mancanza di trasparenza delle consultazioni ha convinto la premier a sospenderle. Da parte sua è arrivata solo una vaga promessa di «tornare alle urne» al più presto, una volta risolta la crisi. Ipotesi per ora lontana.
L’instabilità politica del Bangladesh, ottavo Paese al mondo per abitanti (150 milioni) ma 150° per reddito pro capite (1044 dollari), è infatti diventata emergenza, alimentata dalla disoccupazione massiccia, dalla miseria, dalla corruzione e dai prezzi degli alimentari in continuo aumento, dalle violazioni dei diritti umani e dai gravissimi «incidenti industriali» nelle fabbriche che confezionano abiti per l’Occidente. Lo scorso 26 aprile vicino a Dacca morirono oltre mille operai-schiavi in un laboratorio sprovvisto di uscite di sicurezza e di allarmi. Ulteriore tensione è stata creata poi dalla recente messa al bando del partito islamista Jamaat-e-Islami, il cui leader Abdul Quader Molla è stato giustiziato in dicembre, causando un’ondata di proteste.
In questo contesto la guerra delle due Begum è l’ultima cosa di cui ha bisogno il Bangladesh. E se un mese fa un loro dialogo telefonico (il primo da dieci anni) era uscito sui media facendo parlare di «brutta soap-opera», adesso il termine usato è piuttosto «tragedia».