Giuliano Foschini, La Repubblica 6/1/2014, 6 gennaio 2014
DAI MONDIALI DI ATLETICA AL CENTRO PER RIFUGIATI LA LUNGA CORSA DI ABDUL
BARI «QUELLO, guarda quello». Inchiodarono i due poliziotti del Cara. Era pomeriggio, era caldo, e quei ragazzi sembravano come al solito tutti uguali: somali, eritrei, pakistani, afghani, tutti erano arrivati in Italia per un sogno e si erano trovati in una roulottopoli nella campagna barese, ad attendere fasciati in una tuta di acetato un permesso di soggiorno che potrebbe non arrivare mai. L’attesa rende quei ragazzi tutti uguali. Ma quel pomeriggio, era marzo del 2013, ce n’era però uno diverso. «Per prima cosa gli guardai le scarpe. Erano sbrindellate, nel senso che cadevano letteralmente a pezzi. Eppure correva, cavolo quanto correva. Ero in auto con il collega. Gli dissi: quello, guarda quello. Percorremmo il perimetro del campo, con l’occhio al contachilometri. Erano novecento metri, poco di più. Lo bloccammo, si chiamava Mussie: “Fermati e vediamo che sai fare”. Lui corse e noi prendemmo il tempo. Rimanemmo sbalorditi. Il giorno dopo riprovammo. E si presentò anche un nuovo ragazzo. Non parlava italiano: ci chiese, a gesti, posso? Aveva le scarpe ancora più rotte. Si mise a correre. Andava ancora più veloce dell’altro».
È nata così, in una primavera di Bari, la nuova vita di Abdul Nageeye, 21 anni, somalo. E Hitsa Mussie, 24 anni, eritreo. Due ragazzi che erano scappati per non morire e che si sono ritrovati a correre per vivere. Il merito è del sovrintendente Francesco Leone e dell’assistente capo Francesco Martino, podisti amatoriali, uomini per bene, poliziotti in servizio al Cara di Bari (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) dove Abdul e Hitsa erano stati spediti dalla Sicilia. La storia di quei ragazzi africani era la solita dei cacciatori di sogni: i cinquemila dollari pagati in Africa, la carretta per Lampedusa, i Cie e poi appunto il Cara. C’è un punto preciso però (quando la volante inchioda e i poliziotti guardano Hitsa correre) in cui il loro destino cambia. E il profugo diventa un campione.
«Capimmo subito — racconta Leone — che quei due avevano una marcia in più. Non mangiavano, avevano scarpe improponibili eppure per stare loro dietro bisognava salire su un motorino». Il giorno dopo i poliziotti si presentarono al centro con due borsoni completi, con tenute, cronometri. «Siamo due famiglie monoreddito, se lo avessimo raccontato ai nostri figli ci avrebbero ammazzati. Però serviva quella roba per farli correre. Gli diedi i borsoni e dissi: “Da oggi ci alleniamo per bene”». Silenzio. «Vidi subito negli occhi di quei ragazzi qualcosa di strano». Abdul, qual è il problema? «Problema?». Parla male l’italiano oppure Abdul fa finta di non capire. Però un problema c’era. «Le comunità di somali ed eritrei erano fortemente in contrasto.
Allenarsi insieme poteva diventare un grande problema» spiega il poliziotto.
«Era però la mia occasione. Non poteva scappare». Non è scappata. «Sono rientrato in forma quasi subito. Francesco e Francesco, my big brother and my big father, grazie a loro», racconta Abdul. I quattro diventano una famiglia. Tanto che il ragazzo somalo racconta subito i suoi due segreti, quelle altre due volte in cui il talento poteva cambiargli la strada. La prima era stata in Somalia.
Aveva 15 anni e correva più veloce di tutti. Lo bloccò l’esercito, voleva sparargli, pensavano fosse un kamikaze, altrimenti perché avrebbe dovuto correre così veloce? Il secondo segreto era custodito invece nel suo telefonino, che aveva resistito anche al viaggio dall’Africa a Lampedusa. Un video di qualche minuto. Il suo orgoglio: Abdul aveva corso le semifinali, pettorina della Somalia, ai campionati del mondo in Corea del Sud nel 2011, specialità cinquemila metri piani. Perse, appena 18enne, ma si fece onore, superato da Bernard Lagat, poi medaglia d’argento. «È come se nascosto in quel campo ci fosse stato uno che a 18 anni aveva perso con Federer. E non gli davi più una racchetta in mano».
Abdul e Mussie per fortuna invece avevano le scarpe. La prima gara italiana fu il Trofeo del profugo, all’interno del centro. Stravinsero. «Ma io sono arrivato terzo», precisa sorridendo Leone. «Ma il vero miracolo di quella gara è stato far avvicinare le due comunità: eritrei e somali hanno cominciato a parlarsi, Abdul e Mussie sono diventati inseparabili». La competizione vera arrivò qualche settimana dopo, ad Adelfia, un paesino alle porte di Bari. «Purtroppo però i documenti non erano ancora pronti, non avevano il permesso di soggiorno... Li ho fatti correre però fuori gara: primo e secondo». Arrivano i documenti, vengono tesserati con una società locale, cominciano a vincere gare in tutta la provincia: Bari, Casamassima, Putignano, Abdul primo e Mussie secondo. Il loro nome finisce sul taccuino delle società nazionali, ma soprattutto arriva il permesso temporaneo da rifugiati politici che tanto aspettavano. Era la parte del sogno senza la tuta e le scarpe da corsa. Mussie decide di fare quello per cui era venuto: andare in Svizzera, alla ricerca di un lavoro, dove si trova oggi. Abdul invece è da qualche giorno a Perugia, dove gli è stata assegnata un’abitazione. Sta cercando un lavoro da cameriere o operaio, un servizio pubblicato su Famiglia Cristiana lo ha fatto diventare famoso. «Voglio continuare a correre. E sto cercando una pista dove allenarmi — ha detto ieri a Francesco per telefono — La più vicina è a sessanta chilometri. Ma non è un grosso problema ». No, nella vita di Abdul, le distanze non lo sono mai state.