Massimo Giannini, La Repubblica 6/1/2014, 6 gennaio 2014
LA PROMESSA DI SACCOMANNI “NEL 2014 CALERANNO LE TASSE”
«IL 2014 sarà l’anno della svolta. La ripresa si consoliderà e famiglie e imprese pagheranno meno tasse. Ma la precondizione è la stabilità politica, senza la quale l’Italia è a rischio. Questo deve costringerci tutti, governo, Parlamento e parti sociali, a una forte e condivisa assunzione di responsabilità». Il nuovo anno è appena iniziato, purtroppo all’insegna delle solite turbolenze della politica e delle ben note criticità dell’economia. Fabrizio Saccomanni traccia la rotta che dovrebbe condurre il Paese «fuori dal tunnel». Il ministro del Tesoro si dice ancora una volta «ottimista».
Il segretario democratico dice che lo spread basso è merito di Draghi? Certo, ma nessuno può ignorare l’importanza delle azioni del governo Nel prossimo triennio le imposte si ridurranno di 9 miliardi: troveremo i soldi dalla spending review e dalla lotta all’evasione.
MENTRE parliamo arriva la notizia del malore di Pierluigi Bersani, e Saccomanni ci tiene a mandare il suo «augurio affettuoso» all’ex leader del Pd con il quale ha avuto più occasioni di confrontarsi in passato.
Ministro Saccomanni, la vicenda delle dimissioni di Stefano Fassina non contribuisce a rasserenare il quadro.
«Me ne rendo conto. Ma le ragioni del suo gesto sono tutte politiche e non sono riconducibili al rapporto tra di noi, che è sempre stato ottimo. Stefano è stato leale e collaborativo, abbiamo lavorato bene insieme, pur nella diversità di idee su alcuni aspetti specifici della politica economica. Per questo mi dispiace molto che si sia dimesso, anche se spero che questo non abbia ripercussioni sulla vita e sull’azione di governo».
Almeno una buona notizia in questi giorni c’è stata. Il calo record dello spread sotto quota 200. Qual è la sua chiave di lettura?
«Sono molto soddisfatto, perché è un riconoscimento oggettivo dei progressi del Paese. Quella sullo spread è una mia battaglia personale, fin dai tempi della Banca d’Italia, anche durante il governo Monti. Oggi sono mutate le variabili di fondo, i nostri tassi sono sotto il 4% e questo è indubbiamente un grande risultato. Dobbiamo consolidarlo. Sarei contento se i rendimenti dei nostri bond arrivassero al 3%».
Lo definite il “dividendo della stabilità”. Ma quanto incidono i fattori esterni, come l’enorme iniezione di liquidità delle banche centrali? Renzi sostiene che lo spread è tutto merito di Draghi...
«Guardi, io ricordo che quando dissi che nel 2014 avremmo raggiunto i 200 punti base di spread fui sommerso da un mare di scetticismo. Ora ci siamo arrivati. Vuol dire che i mercati prendono atto delle buone cose che abbiamo fatto in questi otto mesi. Detto questo nessuno può negare l’importanza delle dichiarazioni di Mario Draghi e delle azioni della Bce a sostegno dell’euro. Ma nessuno può ignorare che quelle dichiarazioni e quelle azioni seguono scelte precise compiute dai governi dell’Eurozona, in termini di risanamento finanziario e di contenimento dei debiti pubblici. Noi, su questo piano, abbiamo compiuto passi importanti. E oggi tutti ce lo riconoscono ».
Eppure la Spagna, non migliore dell’Italia nei fondamentali, ha un differenziale inferiore al nostro. Perché?
«Qui veniamo al cuore del problema. La Spagna può contare su un quadro politico più stabile, e su un governo che lavora su un orizzonte temporale più lungo. Questo spiega il differenziale tra il nostro e il loro spread. Gli analisti finanziari legano l’incertezza politica, che da noi permane, alle prospettive dell’economia. L’abbiamo visto all’inizio del 2013: subito dopo le elezioni, che non avevano fatto emergere una prospettiva di governo, l’incertezza ha punito i nostri titoli. Ora dobbiamo evitare che quelle dinamiche si ripetano. La stabilità politica è decisiva: questo devono capirlo tutti, classi dirigenti, corpi intermedi e società civile».
«L’Italia riparte», ha detto Letta. Ma la crescita non si sente. Non coglie una contraddizione tra le rappresentazioni mediatiche del Palazzo e le condizioni reali del Paese?
«L’Italia è arrivata in ospedale con fratture multiple, una commozione cerebrale e un febbrone. Per ora abbiamo debellato il febbrone e la terapia sta funzionando. Rimangono gli altri problemi, per i quali servono tempi più lunghi. I segnali positivi ci sono, su questo non c’è dubbio: ordinativi, domanda interna, esportazioni. Lo dice l’Istat, lo confermano i dati dell’indice europeo Pmi. Purtroppo questi focolai di ripresa non producono ancora effetti sul fronte che ci sta più a cuore, cioè la creazione di nuovi posti di lavoro e la disoccupazione giovanile. Ma questa asimmetria è tipica delle fasi di inversione del ciclo: quando una recessione finisce, i benefici sull’economia reale non sono immediati. Ma io sono fiducioso: in questo 2014 gli italiani cominceranno a sentire concretamente che l’economia si è rimessa in moto».
Fino ad ora non è stato così. La legge di Stabilità è stata contestata da tutte le parti sociali. Dica la verità: non è stata un’occasione mancata?
«Vorrei ricordare che nei mesi scorsi abbiamo restituito crediti della PA alle imprese per un ammontare di circa 20 miliardi. Quanto alla legge di Stabilità, certo, si può sempre fare di più. Ma avevamo vincoli di bilancio molto precisi. E poi aggiungo che, sia pure modesta, ma quella legge ha una valenza espansiva. Per la prima volta, dopo una dolorosa fase di sacrifici, si riduce il carico fiscale su famiglie e imprese e si introducono significative misure di sostegno all’economia. È poco, ma è già un segnale di cambiamento importante».
E dell’assalto finale alla diligenza in Parlamento che mi dice?
«Per storia personale e formazione culturale non sono pratico di assalti alla diligenza. Certo una tendenza ad aumentare spese e tasse l’ho vista. Ma a me stava a cuore mantenere invariati i saldi finali e l’impianto innovativo su cuneo fiscale e investimenti, e ci sono riuscito. Detto questo, visto che questa prassi è stata ampiamente stigmatizzata dalle stesse forze parlamentari e dalla società civile mi auguro che si prendano iniziative di tipo normativo e regolamentare per evitare che in futuro si ripetano».
Sulla spending review si parla già di un forte disagio del commissario Cottarelli. Lei che ne dice?
«Smentisco queste voci. Cottarelli ha preso servizio il 23 ottobre, non poteva certo lasciare un segno sulla legge di Stabilità. Sta lavorando a tutto campo, il suo piano di interventi è già stato approvato dal Comitato interministeriale presieduto dal premier e a fine gennaio inizierà a discutere i primi interventi con i singoli ministeri e i centri di spesa. Le garantisco che interverremo su tutte le voci, a partire dagli sprechi. E le garantisco che il problema principale non è quello delle “tecnostrutture” o dei famigerati “mandarini” ministeriali. Dietro ogni spesa pubblica c’è una legge. Noi andiamo avanti secondo programma. L’obiettivo è arrivare a risparmi di spesa per 32 miliardi di qui al 2016, pari al 2% del Pil. E mi auguro che già quest’anno i risparmi siano consistenti. Possiamo e dobbiamo farcela, per accrescere le risorse da destinare al calo delle tasse».
L’ipoteca politica dell’Imu ha pesato sulle strategie del governo. Per esentare la prima casa avete aumentato altre tasse, e comunque da quest’anno con la Tasi si profila comunque un’altra stangata. Non era possibile trovare un’altra soluzione?
«Senta, la scorsa estate con quel documento sull’Imu avevo tentato di chiarire a tutti la natura del problema. Purtroppo quell’iniziativa non ha avuto successo. Io ho sempre sostenuto che un prelievo sugli immobili esiste in tutti i Paesi, e che la cancellazione dell’Imu non si poteva fare a debito. Così è stato. Abbiamo ridotto le tasse sulla casa quest’anno, e le coperture le abbiamo trovate non con nuove tasse, ma con anticipi d’imposta, con qualche ritocco sui bolli e sulle transazioni finanziarie, e con qualche primo taglio alle spese».
D’accordo. Ma resta il caos sulle scadenze, e poi anche il nodo delle detrazioni per chi già prima non pagava l’Imu. Servono 1,3 miliardi, dove li troverete?
«Il governo nei prossimi giorni interverrà sulla materia. Penso che una valida opzione potrebbe consentire ai sindaci di aumentare l’aliquota massima, e trovare così le risorse per garantire le detrazioni a vantaggio delle fasce più deboli».
La pressione fiscale e diminuita di uno 0,1%. Eppure sia lei che il premier avete sostenuto che il 2014 sarà l’anno del calo delle tasse. Ha senso continuare con queste promesse?
«Si, perché noi abbiamo promesso cose che abbiamo fatto, che stiamo facendo e che faremo. Lo dico senza alcuna esitazione: le famiglie, i lavoratori e le imprese pagheranno meno tasse. Capisco che la gente si aspettava di più. Ma quest’anno la riduzione dell’Irpef non sarà insignificante. E nel prossimo triennio le tasse si ridurranno di ben 9 miliardi, con un calo graduale anno per anno. È un impegno che ho preso, con l’Europa e con gli italiani, e oggi lo rilancio».
Dove troverete i soldi?
«Dalla spending review e dal provvedimento sul rientro dei capitali, che vareremo all’inizio di febbraio. E anche dal recupero dell’evasione fiscale, che anche nel 2013 ci ha consentito di far emergere 12 miliardi, e che nel 2014 intensificheremo. Certo, anche su questo serve consenso politico: non si può invocare sempre la lotta all’evasione, e poi scandalizzarsi quando la Guardia di Finanza fa un certo tipo di interventi, gridando allo stato di polizia».
Non la preoccupa l’onda dei populismi anti-europei in vista delle elezioni della primavera prossima? E cosa pensa del referendum sull’Europa proposto da Grillo e forse anche da Berlusconi?
«Vedo in giro fenomeni molto inquietanti. I partiti anti-europei non capiscono che, senza Europa, la crisi sarebbe stata ancora più grave. Nei loro slogan e nei loro programmi c’è ignoranza e faciloneria. Soprattutto le soluzioni che vagheggiano, dal restituire ai singoli paesi la possibilità di svalutare la moneta alla soppressione dei vincoli di bilancio, non tengono conto dei fallimenti passati. Quanto al referendum sull’euro, penso che queste proposte portino confusione e non aiutino a fare avanzare un dibattito pacato e costruttivo su temi così delicati».
I leader di partito, Renzi compreso ripetono che l’Italia può convincere la Ue ad allentare i vincoli di bilancio e il limite del deficit al 3%. È un’ipotesi concreta, o è la solita pia illusione?
«Le posso assicurare che non esiste una maggioranza di Paesi dell’Unione che vada nella direzione di un allentamento dei vincoli del Patto di stabilità. Ne dobbiamo prendere atto. Del resto noi stessi abbiamo introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio. Dunque, l’Italia e gli altri Paesi possono fare pressione sull’Europa perché faccia di più sulla disoccupazione o le infrastrutture. Ma sui vincoli di bilancio il 3% non è in discussione. Possiamo anche sforarlo, ma dobbiamo sapere che ne pagheremmo le conseguenze, in termini di maggior costo del debito e di perdita di autonomia nelle gestione dei nostri conti. Può non piacerci, ma questa è la realtà. E non si tratta di andare a Bruxelles a sbattere i pugni sul tavolo, come troppo spesso sento dire».
A proposito di lavoro. Renzi propone il Job Act e il contratto unico a tutele crescenti, per sciogliere il nodo dell’articolo 18. Lei è d’accordo?
«Non è materia di mia competenza, ma non c’è dubbio che il lavoro è per noi la principale emergenza. Dobbiamo superare la frammentazione delle normative e dei contratti, e combattere la precarietà che soffoca il futuro dei giovani. Quella è l’area sulla quale dobbiamo intervenire, e il contratto unico può essere uno degli strumenti. Dopodiché il problema della disoccupazione lo si risolve con la crescita economica che aumenta la domanda di lavoro».
Si dice giustamente che la politica, l’industria e la finanza devono essere distinte e distanti. Ma ci sono alcuni dossier sui quali un governo non può tacere. Da Mps alla Telecom, dall’Alitalia alla Fiat. Possibile che non abbiate nulla da dire?
«Per mia formazione ritengo che il coinvolgimento del governo in questi processi richieda molta cautela. In alcuni casi si tratta di imprese private, sulle quali il governo non ha alcuna voce in capitolo, come la Fiat. In altri casi, si tratta di imprese dove è giusto intervenire ma senza velleità statalizzatrici, come nel caso dell’Alitalia o di Mps. In quest’ultimo caso, in particolare, il rilancio della banca è in atto e noi ci concentriamo sulla necessità di realizzare l’aumento di capitale, necessario per assicurare la restituzione dei soldi dei contribuenti. In altri casi ancora si tratta di settori nei quali è opportuno solo un intervento sul piano dei regolamenti amministrativi, ma non certo un cambio delle regole del gioco in corsa, come nella vicenda Telecom».
Ministro, dopo otto mesi di vita di questo governo di Larghe e poi di Strette Intese si sente parlare di rimpasto. Circolano voci e illazioni su rapporti difficili tra lei e il premier. Lei è nel mirino delle opposizioni. Dobbiamo aspettarci novità?
«Senta, io sono un tecnico prestato alla politica. La mia è stata ed è un’esperienza non facile, le turbolenze politiche sono state tante. Ma sono soddisfatto del lavoro e dei risultati che abbiamo raggiunto. Certo, non sono un rinoceronte, alcune punzecchiature strumentali mi hanno dato fastidio. Ma le assicuro che niente mi farà deflettere dal mio impegno. E il mio rapporto con il presidente Letta è ed è sempre stato ottimo».
Dunque niente rimpasto?
«La questione è squisitamente politica. Spero solo che la saggezza prevalga, e che si creino le condizioni per ritrovare una maggiore coesione. Le sfide di politica economica che abbiamo di fronte sono enormi: il “patto di governo” è un’occasione per ritrovare slancio, ed affrontarle con un orizzonte temporale più congruo e più sereno».