Giuseppe Remuzzi, La Lettura, Corriere della Sera 5/1/2014, 5 gennaio 2014
MEDICI E PAZIENTI: 8 MINUTI INSIEME SONO TROPPO POCHI
Otto minuti soltanto: è il tempo che i giovani medici dedicano a ciascun ammalato, ogni giorno, almeno negli Stati Uniti. Come lo sappiamo? Leonard Feldman che lavora al John Hopkins — uno degli ospedali americani più rinomati — ha seguito l’attività di 29 medici appena laureati nel loro primo anno di lavoro e ha confrontato i dati di adesso con quelli di dieci anni fa (quando negli Stati Uniti avevano deciso che i giovani medici non potessero essere impegnati in turni di guardia per più di 16 ore di fila). Viene fuori che i giovani medici passano la maggior parte del tempo a compilare cartelle cliniche elettroniche, ordinare esami di laboratorio e radiologici e in una serie di altre attività che li tengono di fatto lontani dagli ammalati. E quanto stanno nella stanza di chi è ricoverato? «Poco, pochissimo — commenta Feldman — appena il 10% del tempo», anche se nemmeno lui sa di preciso quanto debba essere il tempo giusto da passare con gli ammalati.
Certo è che a confronto con il tempo che i residents passavano con gli ammalati nel 1993 — che arrivava al 22% — o anche solo nel 2003 — che era intorno al 15% — quello di oggi è davvero poco. Per gli ammalati, certamente, che vedono il medico per pochissimi minuti al giorno, e passano il resto della giornata a pensare a quando lo vedranno ancora. Ma anche per i medici che se stanno vicino agli ammalati per così poco tempo alla fine non avranno mai l’esperienza che serve per saper ascoltare i pazienti e discutere dei loro problemi; cose queste che aiutano moltissimo ad arrivare alla diagnosi giusta e a trovare la cura.
Passare un po’ di tempo con gli ammalati è anche l’unico modo per imparare a parlare con loro. È un’arte, quella di parlare con gli ammalati, ma da noi è arte di pochi. E non basta, ci sono diversi studi che dimostrano che più tempo si passa con gli ammalati, più li si ascolta, più si parla con loro meno si sbaglia.
Così negli Stati Uniti, e da noi? Stessa cosa. I giovani medici oggi sono certamente molto più preparati di quanto non fosse chi si è laureato dieci o vent’anni fa. Qualcuno di loro ha addirittura tutta la medicina nell’iPhone, e là dentro ci sono più informazioni di quante ce ne possano stare nel cervello di mille bravi medici. Non c’è più bisogno di passare ore in biblioteca per documentarsi, e uno potrebbe pensare che adesso c’è più tempo per gli ammalati. Non è così. Anche nei nostri ospedali i giovani medici passano con ciascun ammalato al massimo otto minuti al giorno (talvolta addirittura meno); il resto del tempo lo passano davanti al computer.
Altro paradosso. Mentre un tempo tutto quello che ruotava intorno al malato — dalla cartella clinica alle prescrizioni di esami e di farmaci — si faceva sulla carta, oggi i medici devono fare i conti con l’informatica senza però che ci sia, con poche eccezioni, un’organizzazione che consenta di farlo in modo efficace e in tempi ragionevoli. Un po’ perché i sistemi che si adoperano sono inadeguati e non dialogano fra loro, un po’ perché quasi nessuno ha fatto lo sforzo di progettare l’informatizzazione degli ospedali in rapporto alle esigenze degli ammalati piuttosto che alle esigenze di chi ci lavora (quelli dell’accettazione, i laboratoristi, i radiologi, i farmacisti e tanti altri). Vuol dire che dobbiamo tornare alla carta? Niente affatto. I sistemi informatici stanno cambiando la medicina e aiutano a migliorare i risultati delle cure e a sbagliare di meno; a patto però che siano stati sviluppati e pensati almeno in parte con chi li deve usare. Dove ci sono sistemi poco flessibili e pensati per altre applicazioni i tempi si allungano, si arriva a sera e i nostri ragazzi si accorgono che per gli ammalati non c’è più tempo. E allora tante volte ci si affida a un foglio, lo chiamano «consenso informato». L’ammalato lo deve leggere — in fretta e furia — e poi firmare prima di certe procedure: è per saperne di più e per decidere se farsi fare quell’esame o quell’intervento chirurgico. Lo si deve far firmare per legge; a me quel foglio non è mai piaciuto. Preferirei che fra l’ammalato e il suo dottore ci fosse un patto non scritto, fatto di decisioni prese insieme, giorno per giorno, e di responsabilità da condividere. Per questo però serve tempo e anche un po’ di pazienza. Il tempo di provare almeno un po’ a mettersi dall’altra parte, cercare di capire cosa ha in testa, di cosa ha bisogno e cosa si aspetta la persona che hai di fronte. Che in quel momento vorrebbe chiederti tante cose, ma non c’è tempo… e c’è l’emozione (un po’ come per il sarto dei Promessi sposi che, troppo emozionato a vedersi davanti il cardinale Borromeo in persona, alla fine riesce a dire solo «si figuri»). Anche per i nostri ammalati è così. Certe volte si emozionano, si agitano, si impappinano. Al momento buono, dopo aver passato magari una mattina intera a pensarci non riescono a dirci nulla. «Sarà per un’altra volta», se ci sarà tempo.