Giuseppe Di Federico, Il Tempo 5/1/2014, 5 gennaio 2014
UNA CONSULTA DI INTOCCABILI E POTENTI
Le corti costituzionali esercitano uno dei poteri di maggior rilievo politico in democrazia: dichiarare illegittime le leggi approvate dalle assemblee legislative, cioè dalla maggioranza dei rappresentanti della sovranità popolare. Nello svolgere la loro attività le corti costituzionali giudicano utilizzando principi costituzionali spesso formulati in termini tali da consentire interpretazioni discrezionali.
La nostra Corte Costituzionale non è seconda a nessuna nell’esercizio dei suoi rilevanti poteri: non solo ha dichiarato incostituzionali, come è suo compito, norme approvate dal nostro Parlamento ma ha anche, in alternativa, ricorrentemente stabilito quale dovesse essere la loro interpretazione da parte di tutti i poteri dello Stato. A volte ha anche incluso nel nostro sistema giuridico norme che il Parlamento non aveva mai votato. Alcune delle sue decisioni hanno persino determinato ingenti spese aggiuntive per l’erario. È quindi comprensibile, addirittura fisiologico, che in vari Paesi democratici si siano avute, ricorrentemente, reazioni più o meno palesi, più o meno dure, nei confronti della giurisprudenza delle corti costituzionali quando viene ritenuta il frutto di un uso partigiano della discrezionalità interpretativa dei giudici sia da parte delle minoranze, che non si sentono tutelate, sia delle maggioranze parlamentari e di governo, che vedono caducate le leggi attuative del proprio programma o che vedono aumentare le spese cui far fronte.
Vari Stati democratici hanno quindi predisposto meccanismi istituzionali, più o meno efficaci, per favorire il corretto funzionamento delle loro Corti costituzionali ed evitare che si sviluppino tendenze partigiane pro o contro le opposizioni o le maggioranze del momento. Mi limito a ricordarne tre: il primo è che la designazione dei giudici costituzionali, proprio per il grande rilievo politico delle loro decisioni, avvenga in tutto o in buona parte a opera di istituzioni democraticamente elette; il secondo è che i meccanismi di nomina dei giudici prevedano procedure più o meno efficaci per far sì che nelle corti siano presenti giudici con orientamenti ideali diversificati, che rappresentino cioè, per quanto possibile, quelli presenti nella società; il terzo è costituito dai meccanismi intesi a stimolare l’autocontrollo dei giudici costituzionali, e cioè a stimolare in loro un equilibrato e contenuto esercizio del loro potere discrezionale. Sotto tutti e tre questi profili la nostra Corte costituzionale è quella che offre, a paragone di altre, minori garanzie. Sia per quanto concerne le modalità di nomina, sia per quanto concerne gli stimoli al «self restraint» dei giudici.
Modalità di nomina Per quanto concerne le nomine dei giudici - a differenza di altri Paesi a consolidata tradizione democratica, ove la maggioranza o la totalità dei giudici costituzionali viene eletta dagli organi rappresentativi della sovranità popolare o comunque sottoposta al controllo di quegli organi (Germania, Spagna, Portogallo, Francia) - in Italia solo un terzo dei giudici costituzionali (5 su 15) vengono eletti direttamente dal Parlamento con un quorum che favorisce una pluralità di orientamenti. Gli altri due terzi vengono scelti in totale autonomia da organi non eletti dal popolo e senza che al Parlamento venga attribuito alcun potere di verifica delle scelte effettuate, né per quanto concerne le loro qualificazioni, né per quanto concerne il pluralismo dei loro orientamenti.
Certamente questo non avviene per i cinque giudici eletti in piena autonomia dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative, cioè con modalità del tutto svincolate dal processo democratico, ed eletti da organismi reclutati burocraticamente. Non dovrebbe quindi sorprendere che questa forma di nomina non sia presente in nessuno degli altri Paesi a consolidata democrazia.
Non meno peculiare è la nomina dei 5 giudici effettuata in piena autonomia da parte del Capo dello Stato. È un sistema di nomina che può provocare, e ha in effetti generato, a partire dall’avvento della cosiddetta seconda Repubblica, vistosi squilibri nella composizione della corte. Basti ricordare che tutti e 9 i giudici nominati da Scalfaro e Ciampi sono stati scelti tra persone che chiaramente appartengono all’area politica del centro-sinistra. Quattro su nove (Contri, Flick, Gallo, Cassese) erano stati anche ministri nei governi presieduti da Ciampi e Prodi.
In nessun altro Paese a democrazia consolidata è consentito che un singolo soggetto -per autorevole che sia- possa compiere una scelta tanto importante in piena discrezionalità e senza alcun controllo. Non nei paesi dell’Europa continentale. Non negli Usa dove i candidati scelti dal Presidente devono essere confermati da un voto favorevole del Senato secondo procedure col tempo sempre più stringenti.
Il self-restraint Il giudice Stone, uno dei più noti Presidenti della Corte Suprema degli Stati Uniti, era solito ricordare ai suoi colleghi che a differenza delle altre branche del governo, «tutte soggette al controllo di legittimità da parte dei giudici, l’unico controllo sul nostro esercizio del potere è costituito dal nostro self restraint».
Non voglio certo affrontare il complesso tema del self restraint dei giudici e di quali siano le condizioni che possono favorirlo. Mi basti qui ricordare che per la nostra Consulta non sono comunque previsti quegli stimoli istituzionali all’autocontrollo, al self restraint, che sono presenti in altre corti costituzionali. Mi riferisco all’istituto delle opinioni dissenzienti con il quale si consente ai giudici che rimangono in minoranza di motivare il loro dissenso e di fornire circostanziate e diverse interpretazioni delle norme costituzionali. È un istituto previsto da tempo negli Usa e anche in Paesi europei quali Germania e Spagna. Rende palese a tutti, dall’interno stesso della corte, la plausibilità di interpretazioni diverse e alternative dei dettati costituzionali e rende evidenti gli eventuali eccessi di discrezionalità presenti nelle decisioni prese a maggioranza. La prospettiva stessa di vedere efficacemente e ufficialmente criticate le proprie scelte interpretative da altri giudici della stessa corte, induce tutti a un autocontrollo nell’uso della discrezionalità interpretativa.
Aggiungo che le opinioni dissenzienti non servono solo a stimolare l’autocontrollo. Mettono in evidenza non solo i personali orientamenti interpretativi dei singoli giudici ma anche le loro capacità professionali. È una fortissima remora a proporre e scegliere candidati non sufficientemente qualificati. Va subito aggiunto che il voto dissenziente non è vietato dalla nostra Costituzione. Potrebbe essere introdotto anche da noi solo che i giudici della nostra Corte Costituzionale lo volessero. La maggioranza di loro non lo ha mai voluto. Preferiscono l’anonimato di decisioni che all’esterno appaiono unanimi anche quando non lo sono. Nella maggioranza di loro è sempre prevalsa la volontà di non assumersi personalmente e palesemente la responsabilità delle proprie decisioni. A mio avviso, non è rassicurante in democrazia che persone investite di poteri politicamente tanto rilevanti possano e vogliano esercitarli senza assumersene la personale responsabilità.
Sulla base di quanto detto indico anche le riforme che io auspicherei a livello Costituzionale. La mia preferenza va al sistema di nomina dei giudici costituzionali previsto dalla Costituzione tedesca la quale assegna il potere di eleggere i giudici, in eguale misura, sia al Bundesrat che al Bundestag, e quindi nella nostra Costituzione lo assegnerei in egual misura alla Camera delle autonomie e alla Camera dei deputati (se si mantiene l’attuale numero di 15 giudici si potrebbe stabilire che una delle camere ne nomini 7 e l’altra 8). Sarei comunque favorevole anche ad altri sistemi di nomina che rispettino due condizioni: a) che la maggioranza dei giudici venga comunque eletta con un elevato quorum dai due rami del parlamento per garantire una equilibrata composizione della Corte ; b) che le nomine eventualmente assegnate ad altri organi siano comunque sottoposte, nel merito, al vaglio e al consenso del Parlamento. In ogni caso introdurrei in Costituzione la previsione del voto dissenziente e della pubblicazione delle sue motivazioni.
*Professore emeritodi Ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna
Giuseppe Di Federico*