Renato Minore, Macro, il Messaggero 5/1/2014, 5 gennaio 2014
“LO CUNTO”, FAVOLA INFINITA
LA RIEDIZIONE
Scriveva Croce novanta anni fa: «L’Italia possiede nel ”Lo Cunto de li cunti” il più antico, il più ricco e il più artistico tra tutti i libri di fiabe popolari: com’è giudizio concorde dei critici stranieri e dei conoscitori di questa materia, e per primo Jacopo Grimm...Eppure l’Italia è come se non possedesse questo libro perché scritto in un antico e non facile dialetto, è noto solo il titolo e quasi nessuno più lo legge, nemmeno nel suo luogo d’origine, Napoli». Dopo un primo assaggio nel 1871, Croce aveva deciso di pubblicare la traduzione delle fiabe di Giovanni Battista Basile, uomo d’armi, cortigiano e finissimo letterato napoletano. Lu cuntu era il suo capolavoro uscito pochi anni dopo sua morte (1632), ambientato in una Napoli che, capitale del Vice regno spagnolo, era fra le maggiori città europee, ricchissimo laboratorio linguistico e sociale. Per dare dignità letteraria al suo popolo, lo scrittore si era impadronito «dello stromiento nuovo del dialetto adottando uno stile anti-naturalistico e un gusto metaforico e concettoso tipicamente barocchi».
I RACCONTI
Quarantonove racconti-fiabe (tutti con un lieto fine, tranne uno), inseriti in una cornice che forma il cinquantesimo, il titolo allude appunto a questo particolare schema. Con le locuzioni, i proverbi, i nomi di balli, canti, giochi infantili sono la testimonianza indispensabile del suo tempo e della cultura popolare, un documento prezioso degli usi, dei costumi e delle credenze, dei fatti storici, dei luoghi della Napoli secentesca. De Lu cunto de li cunti, noto anche come Pentamerone per via della sua struttura divisa in giornate alla maniera boccaccesca, si sono avute nel tempo diverse traduzioni (come quella di Michele Rak e di Raffaele De Simone in napoletano moderno) dopo quella di Croce, presente nel catalogo Laterza con l’introduzione di Calvino. Tra esse brilla quella di Ruggero Guarini per Adelphi che, di un testo chiuso nel suo dialetto incomprensibile, rispetta con straordinaria inventiva la grandiosa e pesante sintassi barocca, laddove Croce aveva sveltito e movimentato la prosa di Basile. Ora arrivano i due tomi nella prestigiosa collana I Novellieri Italiani diretta da Enrico Malato, curati da Carolina Stromboli (Salerno Editrice, pagine LX -1058, 98 euro). Un’edizione critica del testo eseguita con rigore filologico, accompagnata da una puntuale traduzione italiana a fronte che la curatrice definisce di servizio ma che, come ben dice Salvatore Silvano Nigro, si configura come messa in racconto e decantazione di un notevole lavoro d’interpretazione filologica.
Fate, orchi, incantesimi, re e regine, i "tipi" e i "motivi" ricorrenti del genere, con i loro elementi magici e i personaggi canonici. Da Cenerentola alla bella addormentata, al gatto con gli stivali a il tovagliolo magico, il bastone che si anima a comando o la fanciulla che non ride mai, la matrigna cattiva, la ragazza dalle mani mozze.
PRODIGI
Intrighi e prodigi, ladri, falsari e assassini regolarmente puniti, con molte baldracche ma anche donne virtuose perseguitate dalla gelosia di livide megere: «il più bel libro italiano barocco», scrive Croce proprio perché in esso lo stile turgido, poco amato da Don Benedetto, sembrava dissolversi in una danza allegra limpida e gaia. Ma Basile, immerso fino alla punta dei capelli nel secolo che nel Barocco s’identifica, di esso si fa beffe continue, ne è anche il più scatenato parodista. L’immaginismo trionfante giunge ad aberrazioni descrittive, trasforma un paesaggio lunare in una padella celeste con la luna al centro come uovo fritto. Basile raccoglieva la sfida spingendo la tendenza alle estreme conseguenze. Una libertà verbale, di frasi e di costruzioni di frasi (come ha scritto Raffaele La Capria) talmente iperboliche, fantasiose e paradossali che soltanto il barocco, con la sua artificiosa e travolgente capacità di complicazione, con il suo proteiforme ribollire, con le sue innumerevoli possibilità di proliferazione, avrebbe potuto contenere. Basta ricordare le immagini astronomiche che dissemina, veri e propri racconti nel racconto in cui sole e luna cielo e terra danno luogo a irresistibili commediole e trame non meno distanti da quelli che si dipanavano negli augusti bussolotti delle «guaratelle stradali» che erano poi i televisori dell’epoca.
L’AMORE
O basta rileggere le molte favole dedicate all’amore infelice, nell’esasperazione dei toni che vanno oltre i limiti del paradosso, rappresentano la liquidazione anche anticipata di certo romanticismo larmoyant e strappacuore. O ancora un’altra favola che sembra quasi una bizzarra profezia del lifting con in scena una vecchia scorticata che, volendo diventare attraente come la sorella, si fa raschiare tutte le rughe, ma finisce dissanguata.
Nel Trattenimento primo della giornata prima del Cunto de li cunti un orco, uno dei tanti mostri bonaccioni e soccorrevoli che popolano questo sterminato bestiario di fantasia fiabesca, fa dono al protagonista d’un somaro fatato. E’ un «ciuccio sardagnolo» che, opportunamente incitato, si mette a «cacare perle, rubini, smeraldi, zaffiri e diamanti, ognuno grande come una noce». Non c’è immagine migliore (ha ben osservato Roberto Barbolini) dell’accostamento tra l’umile asinello e le cose preziose che si porta dentro per fornire un emblema araldico dell’inesauribile scrigno che è Lu cuntu. Una straordinaria girandola di personaggi e di casi, l’ordinario e lo straordinario, il realistico e il fantastico, il regale e lo scurrile, il magico e il quotidiano, il sublime e il sozzo, il semplice e l’artefatto, il terribile e il soave.
Renato Minore