Renato Palazzi, Il Sole 24 Ore 5/1/2014, 5 gennaio 2014
SEI PERSONAGGI CON CALDAIA ROTTA
È risaputo che il declino di una Nazione si valuta anche dalla scarsa attenzione che essa dedica alle proprie risorse culturali. E uno dei sintomi più evidenti di questa scarsa attenzione è a mio avviso l’indifferenza nei confronti dei luoghi di conservazione della memoria, degli archivi, dei centri di documentazione, delle raccolte di testimonianze del passato, che sono in genere realtà poco esposte al clamore dei media, e dunque abbandonate alla propria sorte, dimenticate dalle istituzioni che dovrebbero farsene carico.
Grazie alla rassegna Le vie dei Festival ho avuto l’onore, tempo fa, di recitare a Roma in quella che fu l’ultima casa di Pirandello, un indirizzo praticamente sconosciuto ai romani stessi, e devo confessare che raramente mi è capitato di entrare in un ambiente così emozionante. È una bella palazzina degli inizi del Novecento, affacciata su un giardinetto, in via Bosio, una traversa di via Nomentana. Sarà la luce, il colore, saranno le palme, sarà una suggestione legata all’illustre abitante, ma vedendola ti prende la strana sensazione di avere davanti un edificio al tempo stesso romano e siciliano, come immerso in una sua aura mediterranea.
La villa, di proprietà del demanio, ospita al pianterreno alcuni locali del ministero dello Sviluppo economico, dove fino a pochi giorni fa aveva sede un estemporaneo Ufficio Centrale dei Pesi e Misure, presidiato da un impiegato dall’aria un po’ esaltata, uno che aveva la «corda pazza», come tanti umiliati e offesi pirandelliani. L’appartamento dove lo scrittore soggiornò dal ’33 alla morte si trova al secondo piano. Accanto c’è la stanza del suo autista-factotum, Francesco Armellini, mentre al piano di sotto viveva il figlio Stefano, dal quale Pirandello scendeva a pranzare. L’abitazione ha una disposizione insolita, con qualcosa di vagamente straziante: è composta unicamente da un enorme studio-salone dove lui lavorava e riceveva, e da un’angusta stanzetta in cui si trova il letto – sorprendentemente piccolo – dal quale dettò al figlio, nella penultima notte della sua esistenza, l’azione del leggendario terzo atto dei Giganti della montagna. Nell’armadio sono ancora custoditi gli abiti, i cappelli, il bastone, la divisa di Accademico d’Italia, come se il loro proprietario dovesse rientrare da un momento all’altro.
Anche il salone ha quest’aria così intensamente abitata: l’enorme lampadario di vetro di Murano, il divano e le poltrone con le fodere grige, gli scaffali liberty pieni di tomi che non ti aspetteresti – enciclopedie, manuali di consultazione fra cui spiccano due dizionari siciliano-italiano – sembrano essere stati appena usati. Sulla scrivania, su cui fa mostra un pregevole busto di Ibsen, ci sono ancora i calamai con un commovente avanzo dei due inchiostri – nero e rosso – con cui lui diversificava le battute dei suoi testi dalle minuziose didascalie. A fianco, uno stretto tavolino con la macchina da scrivere.
I pesanti tendaggi, il pavimento a piastrelle bianche e nere fanno pensare a una tipica scenografia pirandelliana, a quegli interni metafisici disegnati da Pier Luigi Pizzi per la Compagnia dei Giovani. Sparse ovunque, le foto di una piccante Marta Abba ricambiano con freddezza gli sguardi dei curiosi. Ho visto altre case di grandi artisti, ma in nessuna ho avvertito una così forte presenza, non si sa se dell’autore o delle sue creature, gli assillanti fantasmi dell’immaginario che gli si affollavano intorno «nella malinconia di quel suo scrittoio, all’ora del crepuscolo», e lo tentavano – come dice la Figliastra dei Sei personaggi – per essere portati alla vita.
Questa casa, che è sede dell’Istituto di Studi Pirandelliani, presieduto da una pugnace signora ultraottantenne, la docente e saggista Franca Angelini, ha due amorevoli custodi, Dina (Saponaro) e Lucia (Torsello), impareggiabili sentinelle del ricordo, appassionate, competenti ma in qualche modo "laiche", senza quegli eccessi di adesione che contraddistinguono spesso le vestali. Sono loro che ricevono e guidano i visitatori, sono loro che mostrano con orgoglio i cimeli più preziosi, l’attestato del premio Nobel o i copioni vergati a mano in una minuta calligrafia, come quello dell’Enrico IV.
È proprio per rispetto alla loro dedizione che non è ammissibile la trascuratezza in cui versa la casa. La caldaia è rotta da anni e nessuno la ripara, per cui le stanze sono al gelo. I finanziamenti sono del tutto inadeguati, infinitamente inferiori a quelli di compagnie poco più che amatoriali, insufficienti per la normale manutenzione, figurarsi per promuovere incontri, letture, mise en espace: è inutile aggiungere che in un Paese civile spazi del genere verrebbero ampiamente valorizzati e pubblicizzati. Qui, invece, torna in mente il titolo di un famoso spettacolo di Memè Perlini: Pirandello, chi?