Francesca Cerati, Nòva, Il Sole 24 Ore 5/1/2014, 5 gennaio 2014
L’INVINCIBILE GUERRA AI BATTERI
Dopo 85 anni gli antibiotici sono sempre meno efficaci. Ma come sarebbe il nostro futuro se perdessimo questi farmaci? In un’era post-antibiotici, la pratica medica andrebbe riveduta e corretta. Senza la loro azione protettiva, chemioterapia e immunosoppressori diventerebbero cure pericolose, così come la dialisi o gli interventi chirurgici: qui l’infezione sarebbe una catastrofe. Uno studio britannico ha calcolato che una procedura comune come la protesi all’anca metterebbe in pericolo di vita un paziente su 6, e poi parti cesarei, biopsie, persino un tatuaggio o una liposuzione potrebbero esserci fatali.
A metterci in guardia sui limiti degli antibiotici fu proprio lo scopritore della penicillina, il biologo Alexander Fleming, che ritirando il Nobel disse: «non è difficile creare microbi resistenti in laboratorio, è sufficiente esporli a concentrazioni di antibiotico insufficienti a ucciderli... L’uomo può facilmente sottodosare il farmaco facilitando il fenomeno della resistenza». La previsione di Fleming era corretta. Più gli antibiotici sono diventati accessibili e il loro uso è aumentato, più i batteri hanno sviluppato sempre più rapidamente le difese: in totale oggi sono 18 i batteri che rappresentano una seria minaccia.
Per le istituzioni sanitarie europee e Usa questa è a tutti gli effetti una una crisi. «Se non stiamo attenti ci sarà presto un’era post-antibiotica», ha detto Thomas Frieden, direttore dei Cdc statunitensi. E per alcuni pazienti e alcuni batteri questa "era" è già arrivata: solo in Europa sono 25mila i morti a causa di infezioni ospedaliere resistenti. L’Oms stima che il costo totale del trattamento di tutte le infezioni resistenti agli antibiotici in ospedale è di circa 10 miliardi di dollari all’anno. L’immobilismo di fronte a uno scenario di tale portata è disarmante, dal momento che sono ben note tanto le cause quanto gli effetti. Ma poiché si tratta di un fenomeno in lenta evoluzione, le contromisure continuano a essere rimandate. È lo stesso atteggiamento che la società e le istituzioni hanno nei confronti del cambiamento climatico. È assodato, se ne discute da anni, ma di fatto resta un problema insoluto, da far risolvere alle prossime generazioni. E anche nel caso della resistenza agli antibiotici, siamo tutti responsabili: lo sono le aziende farmaceutiche che negli anni non hanno investito per scoprirne di nuovi, lo sono i medici che ne prescrivono troppi e spesso quando non sono necessari, lo sono i pazienti che ne abusano o non ne rispettano la posologia, lo sono gli agricoltori: negli Usa l’80% degli antibiotici venduti vengono usati in agricoltura, per ingrassare animali e proteggerli dalle malattie. E lo stesso vale per la frutta. «L’impatto sulla società è notevole – ha detto Steve Solomon, direttore dell’ufficio del Cdc per la resistenza agli antibiotici – Si sviluppa nei pazienti e si diffonde nella comunità. Le minacce per la salute aumentano e diventano sempre più complesse».
Ma se l’evoluzione batterica è inesorabile, il pericolo potrebbe dunque non avere mai fine? Forse, a meno che non si inneschino cambiamenti. Danimarca, Norvegia e Olanda hanno attuato un regolamento governativo sull’uso medico e agricolo di questi farmaci, ma gli Usa non sono disposti a tali controlli e hanno emanato un orientamento volontario e non obbligatorio. E l’Unione europea per voce della commissaria alla ricerca Máire Geoghegan-Quinn, ha annunciato il lancio di 15 nuovi progetti di ricerca sulla resistenza antimicrobica che beneficeranno di un contributo pari a 91 milioni di euro.
Servono quindi nuove idee, non solo nuovi antibiotici. Per esempio il controllo automatico delle prescrizioni attraverso le cartelle cliniche informatizzate, lo sviluppo di test diagnostici rapidi e un diverso approccio clinico alle infezioni.
«Siamo in una fase in cui abbiamo bisogno di molti e nuovi agenti terapeutici. Non c’è dubbio su questo – chiarisce Pascale Cossart, direttrice dell’Unità per le interazioni batteri cellule all’Istituto Pasteur di Parigi –. E questi farmaci devono essere sviluppati sulla base di tutte le conoscenze acquisite negli ultimi anni, focalizzando meglio i particolari del processo infettivo e poi chiedersi se, anziché ricorrere agli antibiotici, non si possa seguire una strategia totalmente diversa, cercando, ad esempio, di impedire la penetrazione del batterio nelle cellule. O se il batterio produce tossine, lavorare per contrastarne la proliferazione e di conseguenza prevenire l’infezione». Cossart conclude che serve investire anche sugli strumenti diagnostici, kit rapidi e facili da usare. «La diagnosi precisa è la chiave per prevenire le conseguenze catastrofiche di una qualsiasi malattia infettiva». È della stessa idea Klemens Wassermann dell’Austrian Institute of Technology, giovane ricercatore di talento che ha vinto il Falling Walls Conference di Berlino. «A causa della rapida diffusione di batteri resistenti, la procedura standard non è più praticabile – spiega –. Noi abbiamo trovato un modo che in una manciata di secondi e in maniera completamente automatizzata svela il patogeno coinvolto. Applicando un campo elettrico specifico in un dispositivo microfluidico intelligente, separiamo, rompendole, le cellule ematiche umane dai batteri, che invece restano integri. Li concentriamo nel campione e con tecniche di biologia molecolare abbiamo subito la diagnosi». Ricerca e l’innovazione sono dunque la chiave per invertire la tendenza e contrastare la resistenza antimicrobica. Chi sarà il prossimo Fleming?