Dario Di Vico, Corriere della Sera 5/1/2014, 5 gennaio 2014
NESSUNO HA SENTITO L’AUTHORITY SI OCCUPA SOLTANTO DELLE STRUTTURE NUOVE
Gli aumenti d’inizio d’anno delle tariffe autostradali rischiano di causare un doppio pasticcio, economico e politico. La prima considerazione pessimista riguarda l’economia reale e il rischio molto concreto che i nuovi balzelli finiscano per raffreddare la già timida ripresina intravista dal governo. Sul piano politico la conseguenza è altrettanto evidente: i Forconi a dicembre avevano riposto l’ascia di guerra per il flop della manifestazione romana ma già da qualche giorno si stanno riorganizzando ed emettono nuovi e farneticanti ultimatum al governo. La novità però è che stavolta non è detto che il mondo dell’autotrasporto organizzato li isoli come è accaduto a dicembre, anche le sigle tradizionali dei padroncini infatti sono in fibrillazione per gli aumenti che assai difficilmente riusciranno a scaricare sui committenti e quindi andranno a comprimere margini d’impresa già vicinissimi allo zero.
Ma se le conseguenze possono essere così negative perché il governo Letta è stato tanto generoso con i concessionari autostradali che soprattutto in Veneto e Lombardia hanno strappato adeguamenti tra il 6 e il 7% a fronte di un’inflazione che nel 2013 ha toccato i minimi con un tasso medio dell’1,2%? La risposta è che esistono dei contratti stipulati tra lo Stato, l’Anas e i privati — in gergo concessioni e convenzioni — che regolano la materia e non possono essere disattesi solo in base a considerazioni politiche contingenti (lo fece, tra le polemiche, Giulio Tremonti nel 2008). Avendo di recente istituito l’authority dei Trasporti ci si poteva però attendere che fosse quest’organismo a prendere e motivare la difficile decisione. Invece no, in virtù di una delle tante anomalie che attraversano il mondo del trasporto su gomma made in Italy l’authority si occuperà delle tariffe delle sole nuove autostrade. Delle vecchie continua a farsene carico il ministero delle Infrastrutture.
Arriviamo allora al contenuto delle convenzioni che sono diverse da concessionario a concessionario con l’eccezione del leader di mercato, la società Autostrade, il cui contratto è regolato da una legge. Il testo delle convenzioni non è pubblico, non lo troverete sui siti e qualche parlamentare al momento della votazione in aula ha avuto di che lamentarsi perché chiamato ad esprimere un parere al buio. Grosso modo le convenzioni legano gli aumenti tariffari a tre parametri: il recupero dell’inflazione (fino al 70%), la remunerazione degli investimenti effettuati sulla rete e la remunerazione delle nuove operazioni. Il peso delle tre voci varia da un concessionario all’altro e per questo motivo come è accaduto in questi giorni gli aumenti differiscono, anche di molto, da una tratta all’altra. Ma — e il cuore del problema sta qui — come si certificano gli investimenti? Il ministero è in grado di sapere con precisione se gli stanziamenti descritti sulla carta per ottenere gli aumenti hanno dato veramente vita a dei cantieri oppure no? La risposta non è facile e la dimostrazione sta nelle dichiarazioni rilasciate in questi giorni dal ministro Maurizio Lupi, secondo il quale i concessionari avrebbero voluto rincari più larghi e alla fine si sono dovuti accontentare.
L’obiezione scatta immediata: il meccanismo è regolato in base a degli automatismi oppure il punto di equilibrio lo si trova in virtù dell’abilità negoziale del ministro e della sua moral suasion? Se come sembra — dalle parole di Lupi — la risposta giusta è la seconda vuol dire che l’entità degli investimenti non è una verità assoluta o perlomeno esiste un’area grigia sulla loro quantificazione che alimenta il negoziato tra il ministero e il singolo concessionario. Per capir meglio cosa vuol dire area grigia ed evitare equivoci si può far riferimento a investimenti decisi sulla carta ma magari legati ad autorizzazioni di singoli enti locali che non arrivano. Oppure a singole convenzioni che permettono a qualche concessionario di incassare aumenti tariffari anticipati rispetto al timing degli investimenti.
Per farla breve è legittimo avanzare il dubbio che i rincari siano stati motivati da investimenti che per ora — per un motivo o per l’altro — non hanno dato luogo a lavoro vivo. Del resto se in Italia sulla rete autostradale ci fossero cantieri dappertutto la filiera dell’industria del mattone e delle opere pubbliche non sarebbe così boccheggiante come denunciano continuamente i costruttori dell’Ance. C’è qualcosa che non quadra e il guaio è che tutto ciò non è tema da convegno «sulla regolazione tariffaria nelle società poliarchiche» ma rischia di diventare un ulteriore vincolo che andrà a gravare sulla ripresina annunciata.
Non è un caso che sia il ministro Lupi sia il governatore del Veneto Luca Zaia venerdì scorso abbiano proposto di rivedere il sistema dei pagamenti autostradali per l’autotrasporto introducendo meccanismi di sconto-abbonamento per gli utilizzatori abituali. È chiaro che una misura di questo tipo non piace assolutamente ai concessionari delle autostrade che vedrebbero diminuiti fortemente i loro introiti già decurtati dalla recessione. Esiste un meccanismo di rimborso delle tariffe per i camionisti ma guarda caso a pagare un centinaio di milioni l’anno è lo Stato e non i padroni delle autostrade. Comunque a stroncare sul nascere l’idea dell’abbonamento e a togliere le castagne dal fuoco ai big del casello ci ha pensato direttamente un rappresentante sindacale del popolo dei Tir, Paolo Uggè, che ha bacchettato Lupi sostenendo che una misura di quel tipo costerebbe troppo (ai concessionari).
@dariodivico