Antonio Gnoli, la Repubblica 5/1/2014, 5 gennaio 2014
SALVATORE ACCARDO – [HO SENTITO IL TALENTO QUANDO HO VISTO UN VIOLINO MA ESSERE UN PREDESTINATO NON BASTA]
Non bisognerebbe mai cominciare un libro con la frase «mi considero un predestinato». Mi spaventano quelle vite che – anche nel bene, nel trionfo della volontà, nel successo annunciato e ottenuto – non scampano all’ottimismo. E quando leggo queste poche parole in testa all’autobiografia di Salvatore Accardo ho come l’impressione che egli si assolva preventivamente da ogni dubbio, da ogni incertezza, da ogni fallacia. Ma – riconosciuta la sua mirabile bravura di musicista – viene di dare un senso particolare a quelle parole che altrimenti suonerebbero un po’ troppo fastose e assertive. Si definisce «napoletano intransigente». E già questo è un ossimoro. La sua vita si è arricchita di una moglie giovane e bella e di due gemelle che adora. Vivono in una casa luminosa e accogliente. In questa Milano dannatamente precaria, ecco una famiglia felice.
«Era Tolstoj che diceva che tutte le famiglie felici si somigliano. Ma nella felicità conta la fortuna, ma anche la determinazione. Quando ho scritto di considerarmi un predestinato non l’ho fatto per arroganza, ma per sottolineare che all’origine di una grande carriera ci deve essere un talento vero. Che se non curi è come buttarlo nella spazzatura».
A me colpiva una certa assenza di dubbi. Nel «predestinato» è come se la via sia tracciata da sempre. Non sono ammesse deviazioni, ripensamenti, giri larghi, marce indietro.
«Non ho mai dubitato delle mie scelte. La musica è stata la mia stella polare. Solo a 14 anni, per un attimo, ho avuto il dubbio che la mia vita potesse prendere tutt’altra direzione».
Verso dove?
«Mi riconoscevano un certo talento calcistico. Ero un bravo portiere. Fui notato dal Napoli che mi volle nelle giovanili. Mi sentivo lusingato e desideroso di fare quell’esperienza. Mio padre si oppose con tutte le forze. Lui aveva sognato per me una carriera di musicista. Alla fine vinsero le sue argomentazioni».
Cosa faceva suo padre?
«Era un artigiano: creava, o meglio produceva, cammei. A Torre del Greco, dove vivevamo, aveva un piccolo laboratorio. Guardavo quest’uomo, che suonava il violino per diletto, chino al suo banco dedicarsi con amore a questi piccoli oggetti ovali e penso oggi alla purezza delle sue intenzioni, dei suoi sogni».
Proiettò su di lei la sua ambizione.
«È probabile. Ma nulla, senza quel talento che scoprii immediatamente di possedere, sarebbe stato possibile. Senza quello ci sarebbero stati solo dubbi, tormenti, frustrazioni. Racconto spesso di aver preso in mano il primo violino a tre anni. Non ho un ricordo chiaro. Ma da subito, mi raccontano, ci fu la simbiosi con lo strumento».
Era il bambino prodigio.
«Detesto l’espressione. Mi fa pensare a quei mostri infantili che dilagano nelle trasmissioni televisive. Un bambino prodigio, se non è ben guidato, rischia di avere dei seri problemi di testa. Non mi sono mai sentito un prodigio. Ho fatto una vita normale. Di giochi, di amicizie, e, naturalmente, di studio. Per diventare un bravo violinista occorrono ore di applicazione giornaliera. Devi apprendere la tecnica. Ma per diventare eccelso, a un certo punto, la devi dimenticare. Me lo insegnò quel grandissimo musicista russo che fu David Ojstrach».
Ha suonato con lui?
«No, mai. Però venne ad assistere a una mia esecuzione a Mosca. Era umanamente squisito. Come benvenuto mi fece trovare nella stanza di albergo una scatola di caviale e una bottiglia di vodka. E la sera dopo venne ad ascoltare ilConcerto di Shostakovich. Non ho mai incontrato uno come Ojstrach. Diceva che nel suono ognuno rivela il suo carattere nascosto».
Ed era vero?
«Penso di sì. Tra la musica e la vita ci sono legami profondi. Intese che non si vedono immediatamente e che nascono dalla personalità di chi suona. Ancora oggi provo per quel viaggio in Unione Sovietica una dolorosa nostalgia».
Perché dolorosa?
«Era il 1970 e quel mondo, che sembrava immobile da millenni, mostrava faglie insospettabili. Mi stupivo nel riconoscere che sotto l’immenso ghiaccio della burocrazia ci fosse ancora vita, intelligenza, amore. Eppure era così. In quei giorni moscoviti, tra l’altro, morì mio padre. Per me era stato tutto. Aveva 66 anni. Leggevo la felicità nel suo sguardo quando vinsi il primo concorso a 15 anni a Genova. E poi due anni dopo, nel 1958, la più prestigiosa delle mete: il Paganini. Mi abbracciò timidamente quasi preoccupato di spezzare un equilibrio raro. In quel momento compresi che il violino era il prolungamento del mio corpo».
Cosa le accade quando termina un concerto?
«Provo un sentimento contrastante: di liberazione e appagamento; ma anche di insoddisfazione. A poco a poco quello stato di eccezione torna alla normalità, a una felicità quieta. In quel momento penso alla fortuna di avere suonato insieme agli altri».
Non è più importante l’aspetto individuale?
«Lo è solo se impari ad ascoltare gli altri. La tua libertà finisce dove comincia quella altrui. Un po’ come nella vita».
Intende dire che la musica non ammette la prevaricazione?
«Può travolgere per mille motivi. Ma non per un atto di forza. Non ci si impone sugli altri. Sono gli altri che devono riconoscerti per quello che vali».
Chi sono i grandi musicisti con cui ha suonato?
«Sono stati diversi e da loro ho sempre appreso qualcosa di fondamentale».
Chi per esempio?
«Sicuramente Arturo Benedetti Michelangeli. Era un musicista totale».
Nel senso?
«Conosceva alla perfezione il repertorio degli altri strumenti. Un pomeriggio provammo una sonata di Schumann e mi fece capire che il finale andava suonato nel modo opposto in cui io l’avevo affrontato. Conosceva tutto».
Eppure, in pubblico ha suonato con un repertorio limitato. Perché?
«Credo dipendesse dal suo perfezionismo esasperato. Ma privatamente poteva stupire con esecuzioni che mai avrebbe suonato in pubblico. Non aveva vie di mezzo».
Com’era al di fuori dei concerti?
«Certe volte faceva pensare ai bambini che si divertono con poche cose. Era essenziale anche in questo. Ma la sua più grande passione, al di fuori della musica, erano le macchine da corsa. Guidava una Ferrari. Un giorno da Moncalieri, dove teneva dei corsi, mi accompagnò a Torino con la sua macchina. Sfrecciava per le stradine. Ero terrorizzato. E lui non una parola. Immobile. Serio. Pareva Buster Keaton. Ci fermammo davanti alla stazione. Girò la testa da uccello e aprì bocca: non mi dica che l’ho spaventata?«
Era ironico?
«Aveva un suo modo, forse involontario di provocarti. Che personaggio. Tutto il contrario di Andrés Segovia che seguii nei suoi corsi all’Accademia Chigiana a Siena».
Segovia era il virtuoso della chitarra.
«Di più: era la chitarra. Suonava tutto quello che poteva suonare. Senza darsi dei limiti, con la naturalezza istintiva di un animale. In quel periodo all’Accademia c’erano Claudio Abbado, Zubin Mehta, Daniel Barenboim. Frequentavano i corsi di direzione con Carlo Zecchi. Io seguivo Pablo Casals che teneva lezione di violoncello. Quando suonava vedevo quest’uomo piccolo trasformarsi improvvisamente in una figura gigantesca».
Ha citato dei direttori d’orchestra che sarebbero diventati negli anni dei protagonisti internazionali. Come è stato il rapporto con loro?
«Aggiungerei Riccardo Muti che però non ha mai frequentato l’Accademia Chigiana. Che rapporto, mi chiede. Con alcuni di amicizia stretta. Con Abbado si facevano spesso le vacanze in barca. C’erano anche Luigi Nono e Maurizio Pollini».
Un quartetto fantastico.
«Abbastanza insolito, dopotutto. Eravamo degli appassionati di scopone. Spesso io e Pollini sfidavamo Abbado e Nono. A volte si aggiungeva Luciano Berio. Che non amava perdere. Aveva la competizione nel sangue. Qualunque cosa facesse doveva primeggiare, anche a costo di risultare sgradevole. Ma lei mi chiedeva dei direttori d’orchestra».
Sì, con chi si è trovato meglio?
«Indiscutibilmente con Carlo Maria Giulini. Mi viene in mente il Concerto di Beethoven: inizia l’orchestra, va avanti per qualche minuto, e poi entra il violino. Ebbene, alle prove ebbi la sensazione nettissima che a dirigere fosse lo stesso genio del compositore. Ancora oggi avverto i brividi provocati da quell’esperienza».
In fondo è la fedeltà alla partitura.
«Per Giulini era questo il compito più alto per un direttore. Per lui Beethoven, o qualsiasi altro grande compositore, veniva prima di ogni altra esigenza. Il contrario di Karajan che metteva se stesso avanti a tutto».
Interpretava la parte del divo.
«Alla perfezione. Giulini per tutta la vita ignorò le sirene mediatiche. Karajan ne fece la sua fortuna».
In fondo, si può dire che tutto prese avvio con Toscanini.
«In un certo senso è così, perché proiettò la figura del direttore oltre il palcoscenico. Ogni leggenda ha un sovrappiù, un eccesso di immagine. Però quando dirigeva era scarno, sapeva tirare fuori l’essenziale da una partitura senza aggiungere nessun artificio».
Lo ha conosciuto?
«Non feci in tempo. Morì nel 1957. Ero ancora giovane».
Cos’è l’età per un musicista?
«Come in tutti i mestieri può essere un problema o una risorsa. A volte l’invecchiamento piomba come un rapace. E può ferire in modo irreparabile. Quando Toscanini diresse il suo ultimo concerto alla Carnegie Hall di New York, dedicato a Wagner, a un certo punto smise di battere il tempo. Per una decina di secondi nella sala ci fu il silenzio assoluto. Fu quel vuoto di memoria a segnare idealmente la fine di un’immensa carriera pubblica».
Quanto conta il privato nel bilanciare diciamo certe defaillance pubbliche?
«Se i legami sono saldi e autentici, la famiglia è fondamentale per superare le difficoltà. Lei mi parlava all’inizio della felicità familiare. Per molti è una virtù piccolo borghese per me una straordinaria conquista»
Lei è un padre, mi scusi la franchezza, anziano con due gemelle piccole. Cosa le suscita questa distanza generazionale?
«A volte pensieri duri, perfino di amarezza se penso al forte scarto nell’età. Ma ora, le confesso, prevale la gioia. Non credevo fosse così bello. Certe volte mi stupisco nel pensare che per così tanto tempo ero vissuto senza queste presenze. Arrivavo da un matrimonio, durato a lungo, nel quale alla fine ho sentito il peso della sofferenza».
Allude alla sua prima moglie.
«Sì, quel legame ha occupato quasi trent’anni della mia vita. Negli ultimi tempi avvertivo un senso di inadeguatezza e cresceva l’infelicità. Ci siamo separati. Per un po’ ho vissuto disordinatamente. Poi ho incontrato Laura».
La sua allieva.
«Detta così sembrerebbe la classica fascinazione del maestro con la giovane».
Invece come la racconterebbe questa storia?
«Nel modo più naturale possibile. Durante l’insegnamento non c’è mai stato nulla. Nessun equivoco, nessun imbarazzo, nessuna richiesta sconveniente. Eppure...»
Eppure?
«Ogni volta che incrociavo lo sguardo sentivo crescere in me una strana leggerezza. Ero attratto dalla sua bellezza e dalla solarità, ma niente mi autorizzava a tradurre questo sentimento in un gesto concreto. Per i sei anni di insegnamento è stato così. Solo in seguito ci siamo rivelati ed è nata questa storia bellissima».
Sento che in lei non c’è nessun imbarazzo nel raccontarla.
«Dovrebbe?»
No, pensavo al lato temerario della vecchiaia.
«È vero, c’è un senso di sfida. In questi anni le cose sono cambiate. Si sono anche complicate. Non è facile occuparsi di due bambine piccole. Però è stupefacente vedere come tutto si armonizza».
E la musica?
«Anch’essa ne guadagna. Non è vero che si è bravi solo se si è infelici».
Vecchia idea romantica?
«Un’idea scontata. L’emozione non sai mai quando e dove nasce. Per un artista è fondamentale trasmetterla al pubblico».
Sul violino ci sono molte leggende.
«Si riferisce al suo lato demoniaco? In fondo fu Goethe a dire che durante un concerto di Paganini aveva sentito puzza di zolfo».
Ha giovato alla popolarità.
«E al fraintendimento. Anche se, alla fine, la musica resta una forma di possessione».
Non le sembra che lo sia sempre meno?
«Forse è vero. È difficile oggi scrivere della grande musica. Gli ultimi sono stati Bartók, Berg, Schönberg, Stravinskij. Dopo sono venuti compositori stupendi come Penderecki, Nono, Berio. Ma non erano più dei geni assoluti. Anche l’emozione non è più la stessa.»
Cosa è cambiato?
«Si guardi intorno. Non c’è più la profondità che scaturiva dall’origine. Neppure con il collirio negli occhi riusciremmo a vederne la bellezza. Sto brontolando?»
Non mi pare.
«Bene. Chiuderei qui se è d’accordo. Ho un appuntamento con un medico».
Per Thomas Mann la musica era una variante della malattia.
«Per me la malattia è solo un contrattempo».