Maurizio Ferraris, la Repubblica 5/1/2014, 5 gennaio 2014
QUESTO NON È IL PUNTO
Se scrivi al computer, o meglio se dialoghi sul web, il punto è superfluo per almeno due motivi. Primo, non avendo limiti di spazio (diversamente da ciò che avviene in una pagina di carta) si può indicare l’interruzione andando a capo quanto si vuole. O non andando a capo per un bel po’, lasciando che la riga prenda il posto dei vecchi capoversi (una riga di email può contenere 180 battute, l’equivalente di tre righe “normali”). Secondo, non avere un punto alle spalle rende più facile rinunciare alle maiuscole, che, in una pagina dattiloscritta costano più fatica perché richiedono due tasti. Ma l’ortografia è come l’ortodossia: spinge a trovare profanazioni dappertutto, e a sbottare con un «non c’è più religione!» nello stile di Sant’Agostino che, prima della conversione, confessava di essere più sensibile a un barbarismo che a un peccato mortale.
Non sappiamo cosa avrebbe detto il santo e dottore pro o contro il punto, ma da un articolo di Ben Crair apparso su The New Republic apprendiamo che per molti utenti del web, l’uso del punto è sintomo di perentorietà e di rifiuto del dialogo. L’articolo cita il figlio diciassettenne del Professor Mark Lieberman, linguista all’università della Pennsylvania, che rimprovera appunto al padre di finire gli sms con un punto violando così un’etichetta non scritta di un nuovo linguaggio. Un disappunto che riflette dunque un sentimento diffuso, ma rientra in una illustre schiera di grammaticalmente sensibili ben più antica del web. Rousseau si lamentava che a Parigi stesse invalendo l’uso di pronunciare “vingt” (venti) come lo si scrive, rivelando il suo culto dell’oralità come umanità, contro la scrittura intesa come innaturale supplemento. Leopardi biasimava l’abbondanza di punti esclamativi, che trasformavano i testi in geroglifici, mentre a suo parere i sentimenti si devono manifestare in parole (tanto più poetiche quanto più vaghe).
Nel figlio del professore, invece, la lotta contro il punto è sorretta da un pathos antidogmatico, quello che Rorty avrebbe chiamato un «prevalere della solidarietà sull’oggettività». Mettere un punto, fare punto a capo, è darci un taglio, interrompere il dialogo, il dibattito, la conversazione dell’umanità. Non so come sia andata a finire, forse il professore gli avrà replicato che anche imporre per norma ortografica che le conversazioni non abbiano mai fine è una forma di autoritarismo. O forse che se il punto non lo mette chi scrive a metterlo ci penserà la vita, se è vero che L’uomo al punto (1667) di Daniello Bartoli significa «l’uomo in punto di morte».
Comunque non c’è più religione, davvero. Di solito sono i padri o i professori (e a maggior ragione i padri professori) che si indignano per il “po’” (poco) scritto come pò, un po’ per ignoranza, un po’ per comodità (ci si risparmia una battuta), senza considerare che sarebbe anche comodissimo e possibilissimo scrivere “po” senza accento e senza apostrofo, tanto l’improbabile eventualità che lo si confonda col fiume viene scongiurata dal fatto che quest’ultimo va in maiuscolo.
Questi dibattiti, a ben vedere (ci saranno stati anche tra scribi egizi, con le opposte fazioni dei partigiani della scrittura ieratica e di quella demotica) hanno un unico risultato. Di colpo si scopre che quelle regole che avevamo considerate salde e infrangibili, anche nell’errore, crollano. Se prendiamo un libro di cinquant’anni fa, è probabilissimo che troveremo degli usi grafici diversi da quelli che si applicano adesso (per esempio, punti e virgola e due punti staccati dalla parola che li precede, come avviene in francese ma come non dovrebbe avvenire in italiano), e nelle prime edizioni del Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi (avviato nel 1938) “ha” è scritto “à” e “ho” è scritto “ò”, con un espediente che ha permesso di economizzare centinaia di pagine, e che doveva apparire comodissimo anche a D’Annunzio, che lo adoperava normalmente.
Visto che le trasformazioni hanno avuto sempre luogo (la stragrande maggioranza dei segni di interpunzione che troviamo nei classici della letteratura sono stati aggiunti secoli dopo dai curatori), può darsi benissimo che assisteremo alla scomparsa del punto, come abbiamo assistito, nel giro di un paio di generazioni, alla scomparsa del punto e virgola. Il colpevole della scomparsa del punto e virgola non è quella fantomatica entità che si chiamava “scrittura giornalistica”, ma l’uso della macchina per scrivere, che genera testi più brevi e paratattici. Senza dimenticare che se scrivi a mano non è un grande sforzo mettere un punto e virgola, mentre se scrivi a macchina devi schiacciare due tasti, quello della maiuscola e quello del punto e virgola messo sopra la virgola (che difatti non è scomparsa).
Così, al figlio del professore vorrei dire che il tempo gli darà ragione, ma non per i motivi comunitari che crede lui, bensì per le ragioni bassamente economicistiche del risparmio di tempo. E gli darà ragione molto più in fretta di quanto non abbiano richiesto altre riforme o stabilizzazioni della scrittura, perché con il web ogni parola scritta è virtualmente pubblicata, diversamente da ciò che avveniva ai tempi degli amanuensi, in cui ogni parola pubblicata lo era comunque in un solo esemplare. E anche diversamente da ciò che avveniva ai tempi della stampa su carta, in cui i testi pubblicati erano una parte minima, la punta emersa di un iceberg fatto di scartafacci, appunti privati, corrispondenze inedite che dunque non potevano influenzare in alcun modo l’uso pubblico.
È così che se ci sono voluti quasi quattro secoli perché l’uso di virgola, punto e virgola, apostrofo e accenti adottato da Bembo per il suo De Aetna pubblicato da Manuzio nel 1496 diventasse norma (quasi) condivisa, potranno bastare pochi anni perché i punti scompaiano insieme alle maiuscole, non nei testi a stampa ma in quelli su web, più colloquiali e demotici. O abbiano un uso apparentemente irregolare e in realtà regolatissimo come quello che, per una convenzione sempre più diffusa (fateci caso), vuole che in una email il mittente scriva il nome del destinatario con la maiuscola, e si firmi con la minuscola, economicissima esibizione di modestia, che con la semplice omissione della maiuscola risparmia un tasto e fa l’effetto di un “servo suo”. Senza metterci il punto, ovviamente, perché non si vuole attaccar briga.