Francesca Giuliani, la Repubblica 5/1/2014, 5 gennaio 2014
MR. MOMIX
[Moses Pendleton]
A chiamarlo Mister Momix non si sbaglia: è lui l’inventore di una delle compagnie di danza più popolari al mondo, creatore di un mix unico di atletica, passione per la natura e coreografia, da oltre trent’anni amatissimo, soprattutto in Italia. Moses Pendleton è un americano di montagna, nato nel Vermont sessantaquattro anni fa, ha un fisico asciutto e scattante, occhi grigi come lampi, mani che mimano continuamente i gesti mentre parla velocissimo, carico di un’energia rara. Campione di sci di fondo, per tutta la vita danzatore, ha sempre amato dare prove di resistenza sulla lunga distanza. Oggi vive connesso: la figlia Elizabeth lo ha messo su Facebook, il suo amico Philip gli telefona via Skype e lui porta sempre con sé un piccolo registratore che tiene in pugno acceso e, in un tascapane, una telecamera: «Non scrivo mai. La penna è troppo lenta. Quando ho finito di scrivere una parola il pensiero è arrivato già da un’altra parte. È il metodo di lavoro, la mia dream reality, il punto di incontro tra il pensiero e la realtà».
Sulla terrazza romana del Waldorf Astoria ordina un espresso doppio, per niente scoraggiato dalle nuvole, dal vento, dalla temperatura invernale: «L’aria, la luce, sono la vita per noi. Da quassù c’è una visuale a 360 gradi. Si respira aria libera. Io ho bisogno di stare in alto, di sentire addosso il potere del sole che ci permette di vivere, percepire la nostra energia. Come i girasoli, i fiori che coltivo nella mia fattoria ». Tutto torna. Pendleton è il creatore infaticabile di equilibrismi e giochi di corpi, illusioni di animali fantastici, luci e ombre, mix di danza e, appunto, di sport. Con spettacoli come Bothanica o MoMix Remix, Baseball e Opus Cactus, e naturalmente come l’ultima creazione in tournée, Alchemy (che tornerà in Italia da fine gennaio a fine marzo), ha fatto innamorare le platee di mezzo mondo. I suoi spettacoli esprimono sempre un senso di felicità, bambini e adulti ne escono con un’allegria, un buonumore, vertiginosi, con la voglia di vivere a mille e l’impulso di fare una corsa in un prato.
Un quadro forse fin troppo perfetto dentro il quale si scova non a caso un nucleo oscuro che è poi la vera origine di tutto. Un fatto, una ferita da cui questo magma ancora bollente di passione è scaturito. Il dark side di Moses è legato a una tragedia famigliare, datata 22 luglio 1961, giorno in cui suo padre si toglie la vita. Moses ha dodici anni: «Non sono stato mai più la stessa persona. Ho pensato che valesse la pena di vivere solo per tirare fuori il meglio da me. In qualche modo per rendere felici gli altri, esprimere un’energia». Tra gli episodi di quel periodo di sofferenza indicibile sceglie di ricordarne uno: «Noi ragazzi eravamo seduti a tavola, tutti e sei. Sentimmo uno sparo. Io e uno dei miei fratello ci siamo guardati e ci siamo detti: “Ok, sali tu o salgo io?”. Eravamo terrorizzati che fosse successa un’altra tragedia. Mia madre, l’infermiera che si era innamorata del suo paziente nello sforzo di tenerlo in vita dopo che un incendio gli aveva completamente bruciato il corpo, aveva fallito. E quel giorno, in un momento di disperazione, aveva voluto vedere se la pistola funzionava. Per fortuna il colpo andò a vuoto. La nostra rabbia non si placò». L’immagine del padre è ancora nitidissima: «Portava sempre guanti e occhiali neri. Ma non mi faceva paura, eravamo abituati. Lo conoscevamo attraverso i suoi occhi, che hanno fatto innamorare mia madre da dietro le bende di grande ustionato, in ospedale. Io ero il suo preferito: mi portava in giro sul trattore. Il suo sogno era che facessi il veterinario e che lo aiutassi a creare la mucca perfetta».
Ma il ragazzo Moses prende un’altra strada: si iscrive al Dartmouth college nel New Hampshire dove diventa un campione di sci di fondo. I suoi «padri surrogati», come lui stesso li chiama, sono alcuni campioni di sci austriaco. «Mi piaceva dare prova di me sulla lunga distanza, resistere dosando le forze per molto tempo. Da quei maestri ho appreso la disciplina, la prova dura del corpo. Poi a un certo punto mi sono rotto una gamba e, durante il periodo della riabilitazione, ho provato una lezione di danza. Mi piacque. Ecco, è cominciato tutto così». In quel leggendario college nei primi anni Settanta è nata la compagnia dei Pilobolus, e di quegli anni Pendleton rievoca le occupazioni stile fragole&sangue: «Ma a un certo punto ho lasciato stare, erano troppo estremisti per i miei gusti, e sono passato a fare altro». «Altro» furono anche certe feste che duravano giorni, imprevedibile scenario delle prime coreografie pendletoniane: «Le protagoniste erano cinquanta mucche bianche e nere. Io correvo con un lenzuolo bianco e una torcia. Loro mi seguivano, perché le mucche sono animali molto curiosi. Seguendomi davano vita a una vera coreografia. A un certo punto, io cadevo dentro un buco del terreno e sparivo. Loro restavano smarrite, e dopo un po’ si rimettevano a mangiare l’erba sul prato. Una cosa fantastica, surreale, che piaceva a tutti. È stata la mia prima cow-reography, una coreografia di mucche. La serata si concludeva intorno a una grande tavolata apparecchiata in mezzo a un campo di girasoli: di notte sembrano ancora più alti, li illuminavamo piantando delle torce nel terreno a formare una specie di labirinto, un bosco. A quel punto, succedeva di tutto. Erano i magnifici anni Settanta... In quella casa, la bellissima casa di famiglia in cui andammo ad abitare grazie a mio nonno Moses, molto affermato, che ci volle dare una mano dopo la tragedia di mio padre, ci vivono ancora i miei fratelli. Io ci torno solo con il pensiero».
I leoni di bronzo a grandezza naturale disseminati sul prato dell’albergo romano all’improvviso attirano la sua attenzione (forse gli ricordano le famose mucche): sono il simbolo della catena americana che lo ospita e bizzarramente hanno ciascuno un’espressione diversa. La cosa non gli sfugge, li filma, ci gioca, si mette in posa accanto a loro, poi ordina pane e olive, un altro paio di caffè. Racconta: «È che io qui a Roma mi sento come i poeti romantici. Di tutti i posti, adoro la casa di Keats in piazza di Spagna perché è il più segreto fra tutti i posti segreti. Ci sono gli stessi fiori sul soffitto che il poeta ha guardato un momento prima di chiudere gli occhi, finalmente pronto ad andare di là... Anche mio padre era un poeta romantico, come i poeti romantici aveva una immaginazione straordinaria. Io, invece, sono passato dall’allevamento di mucche allo sci e poi per un periodo al desiderio di diventare sceneggiatore, ma non ho mai scritto molto».
L’uomo che ha inventato i Momix (che portano il suo nome: sono un Moses- Mix) mettendoci dentro sì la sua energia ma anche il suo dolore, facendone un successo planetario, ancora non conosce requie. Pendleton passa dal raccontare le ferite della sua saga famigliare a ragionare di ambiente, energia, politica. «Politica è qualunque attività umana implichi più di due persone. Del resto, c’è bisogno di un altro se stesso per sentirsi interi. Come in una forma di autoerotismo, due immagini si mescolano a formare un ermafrodito che rappresenta la perfezione...».
Dilaga, divaga, e intanto si muove come se ballasse, gioca con le parole ed è automatico vedersi davanti agli occhi le sue coreografie. Nuota tutti i giorni un’ora, va in bicicletta, mangia sano, aborre lo zucchero («veleno tra i peggiori al mondo»), sempre con la musica dentro le orecchie. Ultimamente, fotografa. Moltissime cose, di continuo, usando la tecnologia come uno strumento di registrazione della (sua) realtà. Soprattutto foglie: tantissime foglie, cose che si muovono, di ciascun minuscolo essere in movimento vuole cogliere le trasformazioni anche microscopiche: «Mi piacerebbe fare una mostra alla Centrale Montemartini di Roma, uno spazio fuori dai circuiti del grande turismo, dove mi hanno accompagnato in questi giorni. Era una centrale elettrica, dentro ci sono statue di epoca romana imperiale. È un luogo che ha mantenuto un’energia incredibile. Mi piacerebbe esporre le foto delle foglie: ne ho raccolto un mucchio su un tavolo. Le ho lasciate lì. Con il passare dei giorni ne ho registrato i movimenti e i cambiamenti. Sono nella natura delle cose. Proprio come la danza è nella naturalezza della vita».