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 2014  gennaio 05 Domenica calendario

LA FAVOLA DEI TESINI


PIEVE TESINO (Trento)
Le immagini non sapevano ancora volare, smaterializzate, fra le nuvole di internet. Ma sapevano camminare. E camminando arrivavano altrettanto lontano, ai quattro angoli della Terra. Per tre secoli, le immagini ebbero gambe e spalle. Paraná, India, Cina, Siberia: chiuse in scrigni di legno portati a mo’ di zaini, passo dopo passo, le immagini si diffondevano in tutto il mondo.
Ma la fonte delle immagini era qui, in questa piccola conca verde che si può abbracciare in un solo sguardo, nascosta dietro la Valsugana, tre villaggi, Pieve, Castello, Cinte, disposti a girotondo: il Tesino. Da qui quando veniva l’autunno si incamminavano le immagini di cui il mondo nuovo aveva sempre più fame. E loro, i Tesini, magnifici vagabondi, ambulanti dell’occhio, quella fame saziavano, mettendosi per via, camminando mesi, a volte anni, attraverso paesi e città, nazioni e continenti. E “Per Via” si chiama ora il piccolo, intelligente, sorprendente museo che a Pieve Tesino, finalmente, ne celebra il mito e ne racconta la storia. Che è un po’ questa.
I primi iconauti, padri pellegrini della civiltà delle immagini, nomadi delle figure, erano contadini e pastori. Gente di frontiera, abituata a cambiar padroni e lingua a seconda delle contorsioni della Storia. La romana via Claudia Augusta Altinate passa per il Tesino, tentatrice. Per secoli però i Tesini si mossero solo avanti e indietro secondo i ritmi della transumanza. Finché l’Europa non rimbombò del tuono di quella nuova tecnologia di guerra che impressionò l’Ariosto, «un ferro bugio, lungo da dua braccia», l’archibugio, che per funzionare aveva bisogno di una pietruzza che sprizzava scintille; e di pietra focaia era ricco il suolo del Tesino, così i pastori scendendo a valle ne riempivano le gerle e la vendevano e scoprivano che il commercio ambulante rendeva di più e annoiava di meno della pastorizia. Sicché quando Remondini, il tipografo di Bassano, a metà del Seicento, ebbe la geniale intuizione di ampliare il mercato delle sue stampine con la vendita porta a porta, trovò già pronti, a poche valli di distanza, i commessi viaggiatori ideali, esperti, scafati e ansiosi di partire.
E partirono. In tanti. Quando il Tesino aveva sì e no cinquemila abitanti, cinque o seicento contemporaneamente erano in giro a vender le stampe di Remondini. Uno o due per famiglia. Prima vicino, poi lontano. I primi erano viaggi stagionali, si partiva d’autunno e si tornava a primavera, in tempo per dare una mano nei campi. Poi i viaggi cominciarono a durare anni. Si partiva ragazzi, a tredici anni, si tornava uomini fatti. Il Tesino rimaneva una valle di donne e di anziani. Gli uomini validi erano sulle strade d’Europa. A vendere una merce strana, che non si mangiava, che non serviva a nulla, se non all’anima. Era l’alba della videociviltà. L’occhio scopriva di volere la sua parte.
La cassela di legno con le bretelle partiva piena. Di stampine d’ogni genere. Xilografie di santi da pochi soldi, incisioni in rame acquerellate, più tardi le strepitose litografie a colori. Un’immagine per ogni cliente. Le contadine, e le servette di città, compravano santi e madonnine, magari di nascosto ai mariti che non avrebbero gradito la spesa per quelle frivolezze, poi le appendevano nei loro altarini segreti: l’interno degli armadi dei lini e delle biancherie, dove gli uomini di sicuro non andavano mai a guardare. I cittadini e i borghesi invece preferivano immagini di città, paesaggi, battaglie da appendere nei salotti, per curiosità, per status symbol.
«Aussicht! Voilà les belles images!» gridavano nelle piazze i Tesini poliglotti, appendendo a un filo, con le gioe, le mollette di legno, quelle merci inutili e fascinose. Che loro sapevano piazzare da veri artisti. E un po’ da furbi. Un santo poteva cambiare nome, se necessario, e diventare guarda un po’ proprio il patrono del paese in cui si trovavano a vendere in quel momento. Tanto, chi ha mai visto di persona san Pantaleo o sant’Orso? Però, dài e dài, erano diventati iconologi da campo, divulgatori di pensiero visuale, sapevano spiegare, descrivere, affabulare le loro immagini. Tönle, l’ambulante tesino di un racconto di Rigoni Stern, si innamora delle sue stampe più belle e non le vuole più vendere. Misuravano la risposta del mercato. Tornando, portavano indietro un feedback: «San Giuseppe così giovane in Germania non va, devi invecchiarlo », protestavano con l’incisore, che teneva conto e adeguava il prodotto alla domanda. Giovanni, nonno di Elda Fietta Ielen, da decenni studiosa dei Tesini, «teneva un taccuino rilegato in pelle, con i titoli di tutte le stampe, e a fianco segnava da una a quattro barrette il gradimento dei clienti». I like di Facebook non sono poi quella gran novità.
Era fatica: in “compagnie” da due-tre persone arrivavano fino al nord Europa sempre a piedi, a tappe ormai collaudate, vendendo borgo per borgo. Guadagnavano bene, con le stampe: tre volte quel che le avevano pagate. Se però riuscivano a venderle tutte. Se un temporale non gliele macerava, se non gliele sequestrava qualche censore severo o qualche doganiere pignolo, se non gliele rubavano di notte mentre, per risparmiare, dormivano in qualche pagliaio. Se capitava, erano dolori. Remondini le stampe le dava in conto vendita, ma voleva una garanzia: un pezzo di terra, che spesso incassava, e la gente della valle masticava amaro: «I santi dei Remondini si mangiano le terre dei Tesini...».
Però poi furono i Remondini a fallire, nel 1859. Ma i Tesini andarono avanti lo stesso. Ormai erano una potenza commerciale, una rete ben stretta che legava tutta l’Europa. Avevano cominciato ad aprire sedi stabili, prima magazzini, poi veri negozi: i Tessari ad Augusta e Parigi, i Buffa ad Amsterdam, i Fietta a Metz, i Pellizzaro a Gand, gli Avanzo a Bruxelles. Gelosi, chiamavano come lavoranti e poi cedevano l’attività solo a compaesani, e la parola Tesino divenne sinonimo internazionale di venditore di immagini. Da perteganti e cromeri, che vuol dire piazzisti ambulanti poveracci, da santari di strada, molti erano ormai diventati dei signori, connoisseur raffinati. Ordinavano le immagini, adesso, dalle migliori stamperie d’Europa, soprattutto inglesi, qualcuno era diventato editore in proprio. Certuni erano divenuti delle personalità: come Giuseppe Daziaro, che aprì sontuosi negozi di oggetti d’arte nei passeggi eleganti di San Pietroburgo e Mosca, davanti alle sue vetrine passarono Tolstoj e Dostoevskij e ne scrissero. E quando i bolscevichi confiscarono tutto, Lunacarskij, ministro per la cultura, salvò la vita all’ultimo Daziaro, perché le loro immagini avevano «rispecchiato la vita del popolo russo favorendone il risveglio».
Capitò ad altri, come a Ulisse, d’ammalarsi di mal del viaggio. Tommaso Marchetto, con quella mania di «andare un po’ più lontano», finì in Cina. Sebastiano Avanzo passò l’Atlantico, eccolo in una foto all’albumina, revolver nella fondina perché, c’è scritto dietro, «in Messico la giustizia sta appesa alla cintura». Altri finirono in Cile, in Siberia, in India.
Ma i più volevano tornare a morire a casa. Il mondo nei piedi e negli occhi, il Tesino nell’anima. Prima del tracollo, i Daziaro si fecero costruire una imponente villona rossa che ancora oggi domina da un poggio. I soldi spediti a casa cambiarono la vita della valle: ci costruirono un ospedale, un albergo, perfino una scuola di lingue. Bisognava essere attrezzati, per partire alla conquista del mondo. Nei tinelli dei contadini di questa valle isolata erano appese vedute di Baltimora e lettere da Calcutta, nelle sue taverne si raccontava della guerra boera o della secessione americana. Molti però non tornavano, ma l’arciprete faceva rintoccare le campane a ogni lettera funesta arrivata da lontano.
L’epopea degli hommes des images finì con la Grande Guerra. Le frontiere diventate trincee erano insuperabili. L’Europa sotto macello non comprava più stampe, e ormai i giornali illustrati placavano la fame dell’occhio, senza più bisogno delle gambe dei Tesini.
Oggi idealmente tornano tutti a casa, perché “Per Via”, ricavato nel cuore del paese da un’abitazione modesta, è un po’ museo-archivio e un po’ casa, con le cucine, il salottino, la stube.
Passiamo a salutarli. Noi che viviamo di tivù e di fotocellulari abbiamo un debito con loro: per primi, con la fatica dei loro muscoli, hanno reso il mondo immaginabile.