Emanuela Audisio, la Repubblica 5/1/2014, 5 gennaio 2014
ARMIN ZÖGGELER – L’ITALIANO DELLE NEVI
L’uomo di ghiaccio sente tutto. È come cieco, suona la sua corsa senza spartito, a orecchio. Un astronauta all’incontrario: va giù non su. A pancia all’aria, un meccanico della gravità. Scendere su uno slittino a 140 km all’ora, senza freni, non è una pacchia. Pensi: chissà che preoccupazione quando corre giù per un chilometro e mezzo sulla sua branda tecnologica in fibra di vetro. Invece, ti ritrovi con uno che pensa alle pellicine, alle unghie, alla barba che non può tagliare prima della gara: altrimenti la pelle, sfregata, si irrita e dà fastidio. «Soprattutto dove allacci il casco». Niente rasoio. Guai. Il corpo deve stare quieto, senza punti urticanti. Non deve resistere ma invogliare la forza che ti spara come proiettile, deve stare un po’ morto e fidarsi del nulla. Armin Zöggeler, 40 anni (compiuti ieri in trasferta, vigilia di gara, piccolo brindisi e torta, poi a nanna), carabiniere, cinque medaglie olimpiche consecutive, marito di Monika, padre di Nina e Thomas, 12 e 8 anni, tra un mese portabandiera azzurro alle Olimpiadi invernali di Sochi. Un fenomeno unico al mondo. Se salirà sul podio anche a questi Giochi sarà a quota sei, una cosa mai riuscita a nessuno. Armin è educato e disciplinato, a tradirlo sono i suoi occhi da lupo che hanno attraversato la notte e sbranato adrenalina. Lo sport non è un paese per vecchi, lui lo ha trasformato. È un Highlander che non nasconde le crepe. «Il mio corpo è cambiato, sento gli acciacchi, collo e schiena ora ululano, cinque ore di allenamento al giorno non me li toglie nessuno. Il talento da solo non basta, devo ovviare allo scatto che ho perso in partenza. Poi ci sono le gare, a casa sto poco, mia moglie ci è abituata». Tre sedute di pesi a settimana, passeggiate sulla trave per trovare l’equilibrio, palestra di roccia, esercizi agli anelli, atletica per incrementare scatto e velocità. La stessa meticolosità della massaia che prepara la lista della spesa: spulcia i chili, annota, fa i conti. «Io peso 84, poi c’è la zavorra, con i pesi di piombo legati dietro la schiena fanno 88, con la tuta arrivo a 94, la slitta è 23, in totale fanno 117. Gli altri hanno il vantaggio di essere più pesanti». Anche la scelta della lega di acciaio per le lamine dei pattini impone la stessa cura che ha una madre nello scegliere la fetta di vitello per il figlio. «Mi rivolgo all’estero, dove è un segreto, non mi fregano, compro piccole quantità, le testo, poi se vanno bene riordino». Gira la battuta che Armin i pattini se li porti a letto, dorma con le lamine sotto il cuscino. Tratta il suo slittino come una cuoca il suo mattarello, solo che invece di stendere lasagne, appiattisce avversari. Un pilota di bob vede le curve, uno che scende sullo slittino le ricorda. Va a memoria, senza alzare la testa, si fida solo delle sue sensazioni. Le entrate, le uscite, una geometria mentale che fotografa e conserva.
Altro che file e chip. Perché a quel punto è un’arma senza sicura che fa male solo a se stessa. Basta un attimo per sfrecciare fuori dalla vita, se ti fermi, ti tocca la domanda scema: cosa prova? Zöggeler parla da sciamano. Il segreto? «Non ti fa vincere quello che si vede, ma quello che non si vede». Chiaro no? La pista disegnata in testa dal primo centimetro, da bravo appuntato promosso maresciallo sul luogo del delitto. Lo vedi alla partenza: chiude gli occhi, visualizza, mima le traiettorie. I piedi ad uncino come timoni direzionali, mani guantate da usare come pinne. Curva gancio, curva muro, poi il toro, la curva lavatrice, la curva compressione. Ricordare tutto, pesare molto, ma scivolare lievi come gli smemorati. Non guardare mai indietro, al tutto e tanto, ma concentrarsi sul davanti, sulle curve che portano al traguardo. Ci vuole una coordinazione perfetta: prima hai le gambe piegate, poi spingi, esci dalle maniglie, e parti con forza esplosiva, tutto al millesimo di secondo. Poi devi essere pronto a sollevare di pochi millimetri la testa, per vedere almeno l’entrata della prima curva e a tre quarti devi risollevarti ancora per vedere l’uscita: miracoli, o quasi. Sono fondamentali i consulenti segreti, i ricercatori della facoltà di ingegneria: aiutano a studiare il grado di fusione del metallo, l’inclinazione del pattino sul portapattino e così via. Bisogna rischiare di perdere tutto per vincere qualcosa. Lui lo ha fatto molte volte, anche a Vancouver 2010 su una pista accorciata di 176 metri, che lo sfavoriva, dopo la morte di Nodar Kumaritashvili, un ragazzo di 21 anni della Georgia. Lì il cannibale si è sentito più padre. «Sono andato in crisi, ero nervoso, mi sono venuti brutti pensieri, non puoi morire per una curva sbagliata, puoi scivolare, cadere, ma non essere scagliato fuori contro un pilone. La sicurezza deve essere sempre al primo posto, quella era una pista progettata male e l’aver fatto passare il ragazzo georgiano per uno che non era all’altezza non è stato proprio da signori. Ma una volta sullo slittino il cattivo umore mi è passato, ho vinto il bronzo per 30 millesimi».
Armin a Sochi sarà l’immagine dell’altra Italia. Quella brava a dare del tu a neve e ghiaccio. Fredda, silenziosa, poco mediterranea. Dalla timidezza ruvida. Zöggeler vive a Foiana, sopra Lana, per ironia all’imbocco della Val d’Ultimo, Alto Adige. Certe tradizioni non s’improvvisano, se non hai sognato salti e discese da bambino, nessuno te li può ficcare nel futuro. Qui i cognomi hanno il carattere chiuso di certe vallate e si trovano meglio a parlare in tedesco che in italiano. Cultura da maso, bestie e fieno, mucche e cavalli. «Io ne ho tre. Gli animali mi danno tranquillità. Vado anche a caccia, ho fatto i corsi, perché all’inizio non mi trovavo ad ammazzare camosci, caprioli, cervi. Ma mi hanno spiegato che si eliminano solo quelli vecchi e malati. D’estate vado anche al mare, in Turchia, sì so nuotare e mi piacciono anche gli spaghetti allo scoglio».
Lo slittino è un piccolo mondo antico, dai suoni gutturali. Più che uno sport è un mezzo, un triciclo della neve con cui scendere a scuola. «Io ho iniziato così, ci andava anche mio fratello Alex e i miei cugini, serviva a spostarsi, poi le prime gare, avevo i capelli lunghi che restavano fuori dal casco. Ma oggi tutto è cambiato, fisicamente e tecnicamente, quel mondo fiabesco non c’è più, contano i materiali, l’aerodinamica, la velocità. È come in F1: l’auto, cioè la slitta, comanda, ma l’uomo deve sentirla, aiutarla. Bisogna memorizzare segni, luci, forza centripeta. Se nel mio sport uno ti dà una pacca sulle spalle non è per amicizia, ma per testare il tuo materiale, nella galleria del vento della Ferrari abbiamo sperimentato tessuti e posizione, si vince con i particolari. Ma gli altri rivali, i tedeschi ad esempio, hanno a disposizione sempre le gallerie del vento delle loro grandi case automobilistiche, Audi, Porsche, noi solo ogni quattro anni. E questo fa la differenza. Vai in Germania e vedi che la gente lavora e sta bene, qui da noi è un pianto, non c’è spazio per i giovani, ma se non si investe sulle generazioni del domani come si fa? Se si tagliano investimenti e risorse non c’è crescita. Per allenarci dobbiamo andare all’estero, Cesana ha chiuso, qui non ci sono piste. Io non sono un economista, ma questa depressione è amara e fa male. Quanto alla tutela dei diritti civili non si risolvono boicottando le Olimpiadi e facendo pagare il prezzo allo sport, lo dico per Sochi».
Parla del ghiaccio come un geologo della montagna. «Cambia sempre, lo devi studiare. Per capire dove e come guidare. Filmiamo tutto, di noi e degli altri, per trovare le traiettorie migliori. Sono stato tra i primi a capire il ruolo fondamentale della partenza, lì bisogna essere molto reattivi, si possono guadagnare centesimi di secondo, infatti mi hanno copiato tutti. In Russia il problema sarà il tempo: pioggia, umido, freddo, caldo, nebbia. Se non ci sono condizioni stabili le gara diventa difficile. Mi sarebbe piaciuto fare il pilota in Formula Uno: Schumacher, a cui dico di tenere duro, Alonso, Raikonnen. L’ebbrezza del pericolo invece non mi piace: ho provato il bungee jumping, il salto con l’elastico, una volta, e mai più, mi sono troppo spaventato. Ho avuto paura anche a guardare il lancio dalla stratosfera di Felix Baumgartner, da 39 chilometri di altezza, straordinario sapere che tra quelli che lo guidavano c’era Joe Kittinger, che ci aveva provato prima di lui. I pionieri sono importanti perché hanno attraversato confini sconosciuti. Chiaro che per Baumgartner la vita è cambiata, è diventato un personaggio in tour nel mondo, ha perso un po’ la testa, e la fidanzata lo ha mollato. Io non ho miti, ma se devo scegliere un nome dico Messner, per quello che ha fatto in vetta e in pianura, ha spostato un po’ più in là i limiti, ha scalato quello che voleva, costruito un museo, vissuto anche fuori dallo sport».
La prima olimpiade a 20 anni, l’ultima è la prossima a 40. «La prima volta nel ’94 a Lillehammer, un bronzo, resta indimenticabile. L’emozione di ritirare la divisa della nazionale con la giacca a vento, stare con gli altri, con quelli che sono i tuoi maestri. In quella dopo, a Nagano, sono arrivati i problemi ero in difficoltà con i materiali, che non andavano, ho rimediato all’ultimo, per fortuna. Mi resta il ricordo della famiglia giapponese che ci aveva ospitato prima dell’apertura dei Giochi e il senso di unità e di calore che trasmetteva. Nel 2002 a Salt Lake City tutto è stato perfetto, avevo indovinato i pattini, funzionavano benissimo, ero più veloce che mai. Torino 2006 ha cambiato tutto. Giocare in casa ti fa vivere e morire di felicità, la pressione è enorme, tutti vogliono interviste, ma tu dentro senti che stai perdendo tempo con le parole, diventi nervoso, ti dici: mi devo preparare e invece sto qui a chiacchierare. Quell’oro è stato caldo, mi ha fatto diventare una persona conosciuta, un italiano di tutti, se prima lo eravamo solo ogni quattro anni, con l’olimpiade di mezzo, da quel momento l’attenzione non mi ha mai mollato. Ora come sponsor oltre alle mele dell’Alto Adige ho anche Samsung. Su Vancouver 2010 ho già detto, è stato forse il momento più difficile della mia carriera. La morte toglie certezze. Soprattutto quella di un ragazzo che fa sport».
Armin è rimasto una persona, non un personaggio, potrebbe tirarsela, non lo fa, ha vinto, rivinto, stravinto più di tutti: più di Beckham più di Totti, ma non agita i suoi trofei, né ha bisogno di leggere Kipling. Sono vent’anni che tratta vittorie e sconfitte come la faccia di una stessa medaglia, anzi a proposito, le conserva tutte e cinque in un armadio, al riparo anche dalla curiosità dei figli e della gatta Vicky. «Sanno che non le devono toccare, non voglio che spostino la mia roba». L’immagine dell’ultima a Vancouver dice tutto: sul podio il tedesco Moeller, argento, dice a Zöggeler: dai, alziamo il vincitore, Felix Loch, anche lui tedesco, ventenne. Moeller ride e solleva il gigante Felix, Armin invece fa una smorfia, non ce la fa e riprova, con l’aria di chi dice: e dai ragazzi, risparmiatemi.
Lui beve tè e camomilla. La parola che usa di più è tranquillità. Gli piace la natura, la montagna, e i cavalli perché lì sente calma e serenità. Sì, Armin scivola pure sull’italiano. Dice: «Sarebbe più bellissimo». Poi le sue pupille diventano una fessura, chissà che angoli hanno intuito. E capisci: negli occhi dei lupi l’appetito è uno sguardo sempre fresco.