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 2014  gennaio 07 Martedì calendario

EUSEBIO, IL SORRISO DELLA PANTERA

Pio­veva sulla città pal­lida, le acque del Tago scor­re­vano limac­ciose di fango, la piena rag­giun­geva nor­mal­mente gli argini. Pio­veva sem­pre, anche se non pio­veva, nella città in cui José Sara­mago imma­gina l’arrivo di Ricardo Reis, l’eteronimo più caro a Fer­nando Pes­soa, il poeta che aveva tra­sfor­mato Lisbona nello sce­na­rio della malin­co­nia e di un per­pe­tuo, autun­nale, disin­canto. Se la tri­stezza bor­ghese di Ricardo Reis pre­sa­gi­sce l’inverno della dit­ta­tura, è nella Lisbona da decenni asfis­siata dal régime di Sala­zar che arriva un mino­renne di colore, sot­to­pro­le­ta­rio e mozam­bi­cano, nato a Lou­renco Mar­ques, attuale Maputo: costui, desti­nato a dive­nire uno dei più grandi cal­cia­tori del secolo, si chiama Euse­bio Da Silva Fer­reira ed ha ori­gini tal­mente umili (orfano di padre, ultimo di otto figli) che quando gioca con la palla di stracci tutti lo chia­mano Nin­guém, cioè «niente, nes­suno». Paria dei paria, schiac­ciato alla base di un régime feroce e raz­zi­sta, non solo il talento nativo ma una felice con­giun­tura deviano il destino del ragazzo vero­si­mil­mente desti­nato a lustrare scarpe, ven­dere noc­cio­line o bor­seg­giare i bian­chi inviati in colo­nia: pare infatti che un ex por­tiere della Juven­tus, Ugo Amo­retti, suo alle­na­tore nel pic­colo club di Lou­renco, lo avesse segna­lato invano ad alcune squa­dre ita­liane ma pare, anche, che l’ex cen­tro­cam­pi­sta della nazio­nale bra­si­liana Bauer ne avesse par­lato a un suo cor­re­li­gio­na­rio, l’ebreo unghe­rese Béla Gutt­man, tec­nico a Lisbona sulla pan­china del Ben­fica, allora un club abba­stanza gio­vane e deci­sa­mente peri­fe­rico, molto meno pre­sti­gioso dello Sporting.
Non si era fatto pre­gare, Gutt­man, e aveva dato retta a un istinto che i suoi con­tem­po­ra­nei dice­vano incre­di­bile. Gutt­man aveva preso il diciot­tenne facen­dolo esor­dire nella squa­dra neo­cam­pione d’Europa, appunto il Ben­fica. Morto dome­nica a set­tan­tuno anni nella sua città d’adozione, Euse­bio del Ben­fica e dell’intero Por­to­gallo era pre­sto dive­nuto l’ambasciatore iti­ne­rante, un sim­bolo trans­na­zio­nale e cosmo­po­lita che la stessa Rivo­lu­zione dei Garo­fani non ha scal­fito e, anzi, ha subito rico­no­sciuto come suo vir­tuale bat­ti­strada. (Non dev’essere un caso che per­sino Cri­stiano Ronaldo, figlio di un’epoca post­co­lo­niale e insieme post­mo­derna, insomma un reperto pub­bli­ci­ta­rio e ubi­qui­ta­rio della glo­ba­liz­za­zione, ne abbia sem­pre ammesso aper­tis ver­bis tanto il genio quanto la classe di cara­tura sovra­stante). Euse­bio gioca a Lisbona nel Ben­fica per quin­dici anni, dal ’60 al ’75, poi in club minori per altre cin­que sta­gioni; il suo pal­ma­rès com­prende undici vit­to­rie in cam­pio­nato, cin­que Coppe del Por­to­gallo e una Coppa dei Cam­pioni nel ’62. Così Eduardo Galeano, che gli dedica un breve fol­go­rante ritratto in Splen­dori e mise­rie del gioco del cal­cio, ne rias­sume l’essenziale: «Fece il suo ingresso sui campi cor­rendo come può cor­rere solo chi fugge dalla poli­zia o dalla mise­ria che gli morde i tal­loni. […]E allora lo chia­ma­rono la Pan­tera. Nel Mon­diale del 1966, le sue zam­pate lascia­rono un muc­chio di avver­sari a terra e i suoi gol da ango­la­zioni impos­si­bili susci­ta­rono ova­zioni che sem­bra­vano non finire mai.
Fu un afri­cano del Mozam­bico il migliore gio­ca­tore di tutta la sto­ria del Por­to­gallo: Euse­bio, gambe lun­ghe, brac­cia cadenti, sguardo tri­ste». Non è un feno­meno fisico per­ché non arriva a un metro e ottanta e nean­che si può ascri­verlo ad un ruolo defi­nito: ha ottimi fon­da­men­tali, uno stile netto senza essere sopraf­fino, soprat­tutto è potente («poten­tis­simo» dirà Gianni Brera di lui), veloce e addi­rit­tura irre­si­sti­bile in pro­gres­sione; è agile pari a un felino (di qui il nomi­gnolo di Pan­tera), sale in alto anche da fermo e tira indif­fe­ren­te­mente coi due piedi da qua­lun­que posi­zione, den­tro o fuori dall’area di rigore. A rive­derli oggi, nei fil­mati d’epoca, i gol di Euse­bio (circa 300 col Ben­fica, 41 in appena 64 par­tite con il Por­to­gallo) col­pi­scono per la vio­lenza squas­sante e la varietà impen­sa­bile di un reper­to­rio che com­prende sia la gio­cata d’astuzia sia la con­clu­sione in acro­ba­zia. All’esordio, come si è detto, trova la squa­dra che Gutt­man sem­bra avere alle­stito per lui ed è una squa­dra di rango mon­diale che quasi duplica la nazio­nale por­to­ghese: lì Euse­bio (come Pelé, come Sivori, come poi gli stessi Mara­dona e Messi) si muove da finto cen­tra­vanti, o aggiunto, su tutto il fronte d’attacco e intorno a lui gio­strano un cur­sore infa­ti­ca­bile, José Augu­sto, un’ala veloce quale Simoes e un regi­sta di classe sovrana, colo­red e capi­tano, l’indimenticabile Mario Coluna.
A vent’anni, il 2 mag­gio del ’62, Euse­bio gioca l’incontro della sua vita ed è la finale di Coppa dei Cam­pioni, ad Amster­dam, con­tro le meren­gues del Real Madrid, plu­ri­de­co­rati ves­sil­li­feri del fasci­smo fran­chi­sta. Il Ben­fica va sotto di due gol per le stoc­cate di Puskas, pareg­gia, poi va ancora sotto, fino a quando, dopo avere can­cel­lato nien­te­meno Alfredo Di Ste­fano, Coluna riag­guanta il risul­tato: quindi per mez­zora c’è sol­tanto Euse­bio, che imper­versa e va a segno due volte fin­ché fini­sce 5 a 3 nella coster­na­zione degli assi madri­di­sti. Rife­ri­sce del dopo­par­tita il suo bio­grafo Andrea Bacci (in Gli occhi tri­sti della Pan­tera nera. Vita di Euse­bio Da Silva Fer­reira, Limina 2008): «Lo pre­sero che era a torso nudo, qual­cuno se lo caricò sulle spalle e lo por­ta­rono in trionfo. Si notava che il ragazzo non era pro­pria­mente a suo agio […]Si teneva miste­rio­sa­mente una mano den­tro il pan­ta­lon­cino, e quando final­mente lo posa­rono a terra si capì che nel pan­ta­lon­cino nascon­deva la maglietta di Alfredo Di Ste­fano». L’altro apice della car­riera, l’ultimo, è quat­tro anni dopo ai Mon­diali di Inghil­terra, dove il Por­to­gallo, eli­mi­nato in semi­fi­nale ma in pra­tica estro­messo dalla squa­dra di casa, arriva al terzo posto gra­zie spe­cial­mente a Euse­bio che fol­leg­gia segnando a ripe­ti­zione fino a un ultimo gol leg­gi­bile alla stre­gua di una clau­sola, il rigore segnato al sovie­tico Lev Jascin, fra i mag­giori por­tieri della sua gene­ra­zione. Deca­duti intanto il Ben­fica e la nazio­nale, la piena gio­vi­nezza di Euse­bio accede a un lun­ghis­simo tramonto.
Quella che lascia il cal­cio alla fine degli anni set­tanta è ormai l’icona iti­ne­rante del foot­ball lusi­tano ma Euse­bio si inol­tra con natu­ra­lezza nel Por­to­gallo demo­cra­tico per averlo, se non altro in emblema, pre­an­nun­ciato. È rima­sto un indi­vi­duo laco­nico, non ha niente della star né può dimen­ti­care che il suo atto di nascita, per sto­ria e geo­gra­fia, porta i segni del colo­nia­li­smo raz­zi­sta e di una variante molto odiosa, mili­ta­ri­sta e san­fe­di­sta, del fasci­smo. Fre­quenta volen­tieri i suoi pari, le per­sone comuni, e pare abbia abi­tato al Bairro Alto, non lon­tano dall’ospedale Sao Luis dos Fran­ce­ses in cui morì Pes­soa. È pro­ba­bile non abbia mai letto né lui né gli autori che hanno rac­con­tato la tra­ge­dia recente del suo popolo, da Car­doso Pires e Lobo Antu­nes a Nuno Judice e, ovvia­mente, José Sara­mago ma è certo però che nei suoi occhi malin­co­ni­cis­simi, den­tro un fondo di tri­stezza da fado che gli restava anche nel sor­riso, Euse­bio rivi­veva lo sguardo di Ricardo Reis quando entra a Lisbona sotto una piog­gia così lenta da sem­brare eterna.