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 2014  gennaio 07 Martedì calendario

ALIENI IN PIAZZA, LEZIONE PER ISRAELE

«Sono entrato in Israele nel 2010, un lungo viag­gio dall’Eritrea fino al Cairo poi attra­verso i deserti del Sinai e del Neghev, sfug­gendo ai con­trolli della poli­zia di vari paesi. Cre­devo di sognare quando arri­vai a Tel Aviv, una città vera dopo tanto deserto». Ema­nuel sor­ride. Davanti agli occhi forse gli scor­rono come un film le imma­gini di quei tanti chi­lo­me­tri per­corsi in ogni modo, in auto­carro, in sella ai cam­melli, a piedi. Un viag­gio che fece assieme alla moglie per sfug­gire a un man­dato di cat­tura spic­cato dalla magi­stra­tura mili­tare del suo paese. «Sono un diser­tore, non mi piace fare il sol­dato e andare in guerra, com­bat­tere non è per me», aggiunge Emma­nuel che al suo arrivo in Israele chiese subito l’asilo poli­tico attra­verso un’associazione locale che aiuta migranti. Invano. «Nei primi mesi (a Tel Aviv) dis­sero che avreb­bero preso in con­si­de­ra­zione il mio caso – rac­conta – io nel frat­tempo impa­ravo l’ebraico e lavo­ravo per diversi nego­zianti israe­liani, le cose sem­bra­vano andare per il verso giu­sto. Mia moglie ed io cre­demmo di aver tro­vato il luogo dove vivere, per­ciò deci­demmo di avere un bambino».

Pochi mesi dopo per Ema­nuel sarebbe cam­biato tutto, sotto il peso dell’improvviso ina­spri­mento delle leggi sull’immigrazione deciso dal governo Neta­nyahu e della cre­scente osti­lità degli israe­liani più poveri e dimen­ti­cati che con­vi­vono con i migranti nei quar­tieri popo­lari della peri­fe­ria di Tel Aviv. «Un giorno fui fer­mato dalla poli­zia e arre­stato come clan­de­stino e per ingresso ille­gale nel Paese. Da allora non ho più visto mia moglie e mio figlio. Mi ten­gono in car­cere da oltre due anni ma non ho mai incon­trato un giu­dice». La vita di Ema­nuel e di almeno altri 200 afri­cani, in gran parte eri­trei e suda­nesi, ora è a Holot, in pieno deserto. Un “cen­tro di rac­colta” di migranti, di “infil­trati” o “alieni”, come li defi­ni­scono uffi­cial­mente in Israele. Ses­santa chi­lo­me­tri a sud di Beer­sheva, non lon­tano dal con­fine con l’Egitto lungo il qual­che il governo israe­liano ha fatto costruire un muro, un altro, sta­volta per impe­dire l’ingresso agli “alieni”. Holot per il governo è un “campo aperto”, da dove i migranti pos­sono uscire. In realtà è un car­cere masche­rato, nean­che troppo diverso dalle vicine pri­gioni di Saha­ro­nin e Ketziot. «Fino ad un mese fa ero a Saha­ro­nim, poi mi hanno por­tato qui a Holot. Certo posso uscire, fare qual­che passo intorno ma non sono un uomo libero, resto un pri­gio­niero. Dove potrei andare, intorno c’è solo il deserto», dice Ahmad, un altro eri­treo. « Non pos­siamo lavo­rare — aggiunge — e siamo tenuti a pre­sen­tarci tre volte al giorno alla dire­zione del cen­tro per dimo­strare che non siamo scap­pati. Chi si allon­tana per più di 72 ore viene ricer­cato come un cri­mi­nale e rischia una pesante con­danna». Agli afri­cani rin­chiusi in Holot viene data la pos­si­bi­lità di andare a Beer­shava in auto­bus. «Ma noi non abbiamo soldi e rima­niamo sem­pre qui, in attesa di capire cosa faranno di noi — inter­viene Ema­nuel — vogliono obbli­garci ad andare via, ci pro­met­tono dei soldi ma io non posso tor­nare in Eri­trea, rischie­rei la vita mia e quella di mia moglie, sono un disertore».

Per il governo Neta­nyahu gli “infil­trati” non sono rifu­giati poli­tici ma sol­tanto degli afri­cani in cerca di lavoro. Per­tanto devono andare via al più pre­sto. Altri­menti saranno spe­diti ad Holot, almeno per un anno. O peg­gio a Sah­ro­nim dove le con­di­zioni di vita sono più dure. Il governo ha più volte fatto capire che non cam­bierà le sue deci­sioni e in que­sti ultimi mesi ha saputo aggi­rare la sen­tenza della Corte Suprema che aveva dichia­rato ille­gale la deten­zione senza pro­cesso dei migranti. A con­ferma di que­sta linea del pugno di ferro, le auto­rità hanno esa­mi­nato solo un numero limi­tato di richie­ste di asilo poli­tico. Nono­stante le sol­le­ci­ta­zioni dei giu­dici che ave­vano impo­sto di esa­mi­nare caso per caso la situa­zione dei migranti e aveva fis­sato 90 giorni come ter­mine mas­simo. Un giu­dice, Uzi Fogel­man, è stato chiaro a riguardo: «Que­sto è il ter­mine mas­simo per esa­mi­nare lo sta­tus di tutti i dete­nuti, chi è stato con­trol­lato e la sua libe­ra­zione non costi­tui­sce un peri­colo deve essere liberato».

«Dall’atteggiamento che ha lo Stato – spiega l’avvocato dei diritti umani Oded Pel­ler — è evi­dente che non c’è alcuna inten­zione di rispet­tare la sen­tenza della Corte Suprema. I con­trolli sono len­tis­simi allo scopo di impe­dire la libe­ra­zione della mag­gior parte degli arre­stati e per depor­tarli in un’altra strut­tura». La rispo­sta del governo Neta­nyahu alle sol­le­ci­ta­zioni dei giu­dici è stata la costru­zione di Halot, una pri­gione chia­mata “cen­tro di rac­colta”. Ten­tiamo di entrare. Ema­nuel, Ahmad e i loro com­pa­gni, che hanno accet­tato di rispon­dere alle nostre domande all’esterno di Holot, ora ci seguono con lo sguardo men­tre ci avvi­ci­niamo all’ingresso del centro-prigione. «Per­chè non pos­siamo?», doman­diamo a una guar­dia che rifiuta di aprirci. «Dovete rivol­gervi al por­ta­voce dell’Autorità delle Car­ceri», ci risponde. «Ma se que­sto, come dite, non è un car­cere, allora non abbiamo biso­gno di un per­messo dell’Autorità delle Car­ceri». Ci inti­mano di allon­ta­narci senza fare sto­rie. Dopo un paio di minuti viene a par­larci un respon­sa­bile di Holot. E’ in divisa. «E’ inu­tile insi­stere, l’ingresso è vie­tato alla stampa, a chiun­que. Solo chi vive qui può entrare e uscire», ci dice peren­to­rio e con il sor­riso stam­pato sulla bocca. «Hai capito ora? -, ci chiede Ema­nuel — Que­sta è una pri­gione come hai potuto vedere, è meglio di Sah­ro­nim ma resta una pri­gione. E io voglio essere un uomo libero per­chè non ho com­messo alcun reato, non sono un cri­mi­nale. Per­chè Israele mi tratta come una bestia pericolosa?».

Ci por­tiamo die­tro l’angoscioso inter­ro­ga­tivo di Ema­nuel men­tre ci allon­ta­niamo da Holot e dalle gemelle Ketziot e Sah­ro­nim. La luce patta del vuoto deserto del Neghev ci accom­pa­gna per molti chi­lo­me­tri. A Tel Aviv ci aspetta Tamar Aviyah atti­vi­sta dei diritti dei migranti. Gli “infil­trati” final­mente hanno scelto di non rima­nere in silen­zio, hanno deciso di far sen­tire la loro voce, di lot­tare con­tro chi li mette di fronte a due sole pos­si­bi­lità: andare via o finire in car­cere. Sono in mar­cia per i loro diritti. «Guarda sono migliaia, sapevo che sareb­bero venuti in tanti, senza più paura, decisi a lot­tare ma non mi aspet­tavo così tanta gente», ci dice Tamar men­tre davanti ai nostri occhi sfi­lano suda­nesi, eri­trei e afri­cani di vari paesi. A fine gior­nata si saprà che sono scesi in strada quasi in 30mila. Ci sono parec­chi israe­liani con loro ma il cor­teo diretto da Piazza Rabin verso il parco di via Levin­sky, alla peri­fe­ria sud della città, è com­po­sto soprat­tutto dai migranti. «E’ un risul­tato ecce­zio­nale per­chè (i migranti) hanno saputo orga­niz­zarsi da soli. Gli atti­vi­sti hanno dato un mano ma i pro­ta­go­ni­sti asso­luti sono i migranti», dice Tamar. “Lascia­teci vivere”, è scritto su un car­tello issato da una donna. “Dateci l’asilo poli­tico” su di un altro. L’atmosfera è alle­gra, distesa. La poli­zia si tiene a distanza. Tamar e altri atti­vi­sti israe­liani prima di Natale hanno aiu­tato cen­ti­naia di migranti, che ave­vano lasciato Holot, a rag­giun­gere la Knes­set a Geru­sa­lemme per pro­te­stare con­tro la legge sull’immigrazione. «I poli­ziotti in quel caso usa­rono le maniere forti e molti dei migranti furono arre­stati per aver abban­do­nato il cen­tro di rac­colta», ricorda.

Per Tamar il segnale è ine­qui­vo­ca­bile. «Que­sti uomini e que­ste donne con la loro lotta ci stanno dando una lezione di incre­di­bile impor­tanza. Stanno dicendo – pro­se­gue l’attivista — agli israe­liani che non accet­tano il raz­zi­smo, la nega­zione dei diritti, che cre­dono nella libertà dei pale­sti­nesi sotto occu­pa­zione e vogliono una società mul­ti­cul­tu­rale e mul­tiet­nica, che pos­sono vin­cere su di una classe poli­tica che fa della forza la sua legge e che la bat­ta­glia non è mai per­duta se c’è la deter­mi­na­zione giu­sta per por­tarla avanti. Siamo noi atti­vi­sti che dob­biamo dire gra­zie, non loro». Il cor­teo pro­se­gue, immenso, colo­rato, paci­fico. A piazza Levin­sky è il momento del riposo e dei bilanci. «Siamo tanti, Israele non può igno­rarci, deve acco­glierci», dice Ethan giunto da Juba. «Non ci fer­me­remo, andremo avanti», pro­mette un suo amico. Entrambi non hanno più di 20 anni. In strada distri­bui­scono volan­tini. «Siamo sfug­giti a per­se­cu­zioni — è scritto sui fogli — a coscri­zioni for­zate nelle forze armate, a guerra civili e a geno­cidi. Invece di essere trat­tati come pro­fu­ghi dal governo israe­liano siamo trat­tati come cri­mi­nali». «Chie­diamo – pro­se­gue il volan­tino – la revoca dell’emendamento alla legge sull’immigrazione; la fine degli arre­sti; il rico­no­sci­mento dello sta­tus di pro­fu­ghi; il rispetto dei diritti sociali dei rifugiati».

Ieri nuova mani­fe­sta­zione a Tel Aviv, pas­sando davanti a una decina di amba­sciate fra cui quelle di Stati Uniti, Fran­cia, Ita­lia, Sve­zia, Gran Bre­ta­gna e Canada e agli uffici dell’Agenzia dell’Onu per i pro­fu­ghi che ha cri­ti­cato le nuove leggi israe­liane in mate­ria di immi­gra­zione e la costru­zione di Holot. Il mini­stro degli interni Gideon Saar ha riba­dito che la legge (con­ce­pita pro­prio da lui) non sarè modi­fi­cata. Una par­la­men­tare del Likud, Miri Reghev, ha affer­mato che è obbligo del governo «impe­dire che que­sti infil­trati si impa­dro­ni­scano» delle strade israe­liane. Parole che non fer­me­ranno i migranti.