Danilo Mainardi, Corriere della Sera 4/1/2014, 4 gennaio 2014
«POLPETTA», L’ORSO AMERICANO SUPERSTAR CHE FA LITIGARE GLI UMANI (PER SOLDI)
Nella città di Glendale, in California, in quest’ultimo capodanno è avvenuto un evento che è, senza dubbio, un segno di questi tempi modernissimi, sempre più accelerati per quanto concerne la nostra specie, e invece sempre identici, come almeno dovrebbero essere quelli propri della storia naturale. Il che significa, soprattutto, degli altri animali, quelli che ormai siamo soliti definire, com’è politicamente corretto, degli «animali non umani».
E’ stato così, infatti, che un bell’esemplare di orso bruno americano, scoperto nel marzo dello scorso anno a razzolare nella spazzatura alla ricerca di qualcosa da mangiare nella periferia nord di Los Angeles, s’è trovato coinvolto in una storia sicuramente più grande di lui. Preso una prima volta e portato in boschi lontani un centinaio di miglia, dopo un po’ se n’è tornato indietro. E questa volta — una volta veramente fatale per la sua storia — viene scoperto intento a mangiare una confezione di polpette di carne. Da quel momento lui non è più un orso qualsiasi, ma inconsapevolmente inizia la sua carriera di divo. Diventa cioè «l’orso polpetta», un mito, una star. Tutti ne parlano, e c’è subito chi se ne approfitta. La sua fama si diffonde attraverso Twitter a un punto tale che il simpatico orso (gli orsi sono sempre simpatici) si trova ad essere titolare di un account personale, gestito da un’intraprendente signora che lancia nel social network l’orso che diviene presto inconsapevole protagonista di uno scambio diffuso di messaggi di ogni genere, anche a carattere almeno velatamente pubblicitario. Del resto è così che si crea una marchio o, meglio, un brand. E’ qualcosa che deve penetrare nell’immaginario della gente, facendolo sentire parte della propria esistenza, stimolando ogni tipo di partecipazione. Un percorso ben noto, questo, a chi si occupa di comunicazione dei prodotti commerciali.
Accade così che quell’orso, che sempre attratto dalle fonti di cibo continuava a tornare in quei luoghi, finalmente e una volta per tutte viene catturato e confinato in un Centro di raccolta di animali, il «Sanctuary di San Diego in California», insieme a un numero considerevole di individui di specie di mammiferi predatori, soprattutto leoni, tigri e orsi. Ma lui in realtà continua a circolare fra la gente come immagine: sulle magliette, sulle borse e, naturalmente, mantenendo vivo il suo personale account di Twitter. Diventa anche il personaggio chiave, sotto forma di pupazzo, della annuale Rose Parade. Insomma è nato un mito, una leggenda, un marchio. Ha assunto quel valore simbolico che lo rende irrinunciabile e insostituibile.
Non poteva dunque non accadere che scoppiasse un conflitto sui diritti ad usare quel brand. Rivendicato dall’intraprendente signora che lo aveva lanciato nel social network allo scopo, sostiene con convinzione, di raccogliere fondi per una campagna a favore dell’orso e delle specie del santuario, ma rivendicato contemporaneamente anche dai responsabili del centro dove è ospitato. Essi giustamente reclamano la necessità sempre crescente di fondi per far fronte al mantenimento degli animali. Insomma un braccio di ferro che finirà davanti ad una Corte per la quale non sarà facile trovare la soluzione.
La vera e unica soluzione auspicabile sarebbe riportare tutta la questione ad una razionale riflessione su come, ancora una volta, siamo capaci di creare distorsioni se non aberrazioni sul mondo animale. In questa storia sembra che pochi abbiano capito la responsabilità che ha l’uomo nel determinare comportamenti anomali negli animali, nell’adottare soluzioni innaturali. In più non ci asteniamo dal tentare di ricavarci qualcosa e di pensare a fare qualche affare. L’unica notizia buona è che quell’orso probabilmente sarà trasferito nelle folte foreste del Colorado. Finalmente lì, forse, non sarà più un brand.