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 2014  gennaio 04 Sabato calendario

MA IL DEBITO NON SCENDERÀ ANCORA


Buona notizia il calo dello spread lo è senz’altro. Lo è doppiamente per il governo, perché rende più verosimili certe sue previsioni sulle quali le autorità europee hanno espresso dubbi. La scommessa di Enrico Letta e di Fabrizio Saccomanni sul 2014 poggia ora su basi meno aleatorie; ma richiederà ugualmente decisioni politiche incisive, tutt’altro che scontate.
In primo luogo la tendenza apparsa sui mercati ha poco a che fare con quanto avviene in Italia. Lo spread diminuisce per tutti i Paesi deboli dell’euro e quello della Spagna è calato in misura maggiore del nostro. Perfino l’economia greca incomincia a riprendersi. Dopo il deludente vertice europeo di dicembre, ci si chiedeva se il bicchiere sarebbe stato giudicato mezzo vuoto o mezzo pieno: la risposta al momento è mezzo pieno.
In secondo luogo uno spread a 200 punti base nella media 2014 è esattamente quanto occorre per far tornare i conti del governo così come sono.
Si può sperare che continui a scendere.
Meglio non ipotecare il futuro, come suggeriscono numerosi proverbi. L’obiettivo a portata è casomai evitare la stretta di bilancio aggiuntiva prospettata dalla Commissione europea.

In terzo luogo un tasso attorno al 4% sui titoli di Stato a 10 anni – il livello attuale – non basterà a garantire un calo dell’immenso debito pubblico in assenza di una continuazione dell’austerità. Per lunghi anni ancora, a causa del peso degli interessi, lo Stato italiano dovrà restituire ai cittadini significativamente meno di quanto incassa in tasse.
[s.l.1] Anche con la sospirata ripresa, la politica di bilancio dovrà rimanere leggermente restrittiva nel 2015 e 2016. «Dovrà» non nel senso che qualcuno dall’esterno ce lo impone, ma di necessità, per non incrinare la credibilità del Paese senza la quale sarebbero gli italiani stessi a portare i soldi all’estero, prima ancora che gli stranieri a farceli mancare.
Con ciò, la base materiale dell’insoddisfazione verso la politica rimarrà. E il guaio è che per uscirne, ovvero per abbassare le tasse riducendo la spesa, occorre appunto governare. L’immagine della «casta» alla fine non spiega nulla. La classe politica presiede a un intreccio di interessi reali del Paese che interagiscono in modo sempre più malsano, ma sono ben radicati.
Magari bastasse ridimensionare uno Stato padrone di tutte le risorse, come avvenne al crollo dei regimi comunisti. Qui la gente ha sempre votato, e ogni pezzetto di spesa ha beneficiari in carne ed ossa pronti a difenderlo. Per incidere sul groviglio che stringe burocrazia, gruppi di potere, corporazioni, imprese ben ammanicate, e così via, occorre dire molti no in nome di interessi generali dei cittadini (interessi veri, non emozioni negative alla Grillo).
Può «fare» solo un governo che ha riconquistato la fiducia della gente, e non deve giustificarsi passo per passo. La riforma politica è dunque indispensabile alla riforma economica. Una Camera sola, e con meno deputati, ridurrebbe le addizioni clientelari che sfigurano le leggi; una divisione più chiara di competenze tra Stato e Regioni eviterebbe occasioni di spesa; e così via.
Al momento quasi tutti i partiti si proclamano insofferenti del limite europeo al deficit, il famoso 3%. Ma se per incanto scomparisse, risulterebbe irrefrenabile l’impulso a tornare ai vecchi vizi. L’attuale assetto dell’area euro – «vantaggioso ai capitalisti dei Paesi forti e ai creditori in generale, dannoso per i lavoratori e gli imprenditori» nelle parole del commissario europeo Laszlo Andor – è dovuto alla diffidenza reciproca tra i governi. E come chiedere ai tedeschi di fidarsi dei nostri politici, se non ce ne fidiamo noi?