Mauro Pianta, La Stampa 4/1/2014, 4 gennaio 2014
ALFREDO TRA ABRUZZO E TORINO “SI PARTE PER POTER RITORNARE”
Le mani in tasca, il ciuffo spavaldo, l’aria di chi è pronto a guadagnarsi il futuro. Il ragazzo che la fotografia de La Stampa scattata a Torino nel 1966 ritrae in piedi, di profilo (a destra nell’immagine), ha già strappato al suo destino da immigrato la propria quota di sogno. Alfredo Consilvio, questo il suo nome, dopo aver trascorso più di quarant’anni nel capoluogo piemontese dove è riuscito ad aprire un ristorante, nel 2002 ha scelto di vendere tutto e di tornare a Castiglione Messer Marino, il paesino dell’Abruzzo dal quale era partito quindicenne. «Si parte per poter ritornare, l’ho sempre saputo – dice oggi il 67enne Alfredo –. Qui ho dato una mano ai miei due figli a mettere su un bar: adesso ho tre nipoti, mi godo la vigna, le mie terre, va bene così. Ma quella foto, che nostalgia… Bello scherzo m’avete fatto…».
Non sa, Alfredo, chi fosse la signora con la damigiana in testa. Né rammenta a chi appartenessero le due valigie legate con la corda. È certo, però, di trovarsi al cospetto di un fermo-immagine della sua vita catturato all’uscita della stazione torinese di Porta Nuova. «Avevo vent’anni, poco tempo dopo sarei partito per il militare in Friuli. In quel periodo mi sentivo come una freccia che sta per essere lanciata anche se non sapevo bene dove. No, non mi ero accorto del fotografo. Quella giacca? Era la mia preferita, ricordo bene il negozio dove l’avevo presa. Bella, eh?». E che dire dell’acconciatura? «Mi dicevano che così assomigliavo a quel cantante, come si chiamava? Little Tony, giusto, è morto da poco, mi è spiaciuto». Oggi il ciuffo è inesorabilmente meno baldanzoso, ma le parole continuano ad essere abitate da una certa ruvida fierezza. «Sono arrivato a Torino in treno, con un amico del paese, il 19 marzo del 1961: ci aspettavano tanti sacrifici, lo sapevamo. Ma non ci siamo mai tirati indietro».
Non si tira indietro, Alfredo, quando gli offrono un posto da lavapiatti in un ristorante del centro gestito da una famiglia toscana. Da lì, anno dopo anno, comincia a strappare ai cuochi i segreti del mestiere. «Il lavoro era duro, ma mi hanno sempre trattato con rispetto. Nessuno mi ha mai insultato perché venivo dal centro Italia». Fatica e sacrifici, giusto quello che si aspettava. Il ragazzo lavora in diversi locali. Ma Alfredo lo sapeva, un’occasione sarebbe spuntata anche per lui. E infatti l’opportunità arriva nel 1968: la città fa i conti con l’incendio della rivolta studentesca, lui invece deve valutare se può farcela ad acquistare un locale tutto suo, offertogli da un catanese appena fallito che voleva tornarsene in Sicilia. «Non ci dormivo la notte – ricorda – poi ho deciso di buttarmi: ho firmato 42 cambiali, da 150 mila lire l’una per comprare quello che sarebbe diventato il mio ristorante in via Accademia Albertina». In un momento in cui un pranzo costava 600 lire e lo stipendio medio di un operaio si aggirava sulle 100 mila lire, è un investimento. O un sogno, fate voi.
Prima di aprire i battenti, però, c’è una faccenda da regolare. Alfredo torna al paese, dove la sua Antonietta lo aspetta da tempo. «Ci siamo spostati ad agosto, in ottobre abbiamo inaugurato il locale». Abitano sopra il ristorante, lui si occupa della cucina, Antonietta è la regina della sala. «Proponevamo – dice – piatti semplici, saporiti, un miscuglio tra l’Abruzzo e il Piemonte». I clienti non mancano: impiegati, studenti, soprattutto operai. Con qualcuno si diventa amici sul serio, magari grazie a quella passionaccia per la Juventus. «Spesso – racconta – scommettevo un pranzo sulla vittoria della mia squadra del cuore e qualche volta, poche – butta lì ridendo – mi è toccato pagare». Nel frattempo erano nati i figli, Gianfranco e Marco, che imparano presto a dare una mano nell’impresa di famiglia. E allo stadio, papà Alfredo ci portava pure loro. «Torino – racconta ancora – era diventata la mia città, la città che mi ha dato un’occasione. La sera, dopo un giorno intero tra comande, piatti e fornelli ero distrutto. Però ero anche contentissimo: sentivo di essermi guadagnato la giornata».
Poi, dopo quarantuno anni, la decisione: vendere e tornare in Abruzzo. Perché? «Ci sono stati degli imprenditori cinesi che mi hanno fatto una buona offerta e mi è sembrato giusto tornare da dove ero venuto». Pentito? «Qualche volta penso che potevamo restare». Nostalgia del capoluogo piemontese? «Tanta, tantissima. Non per niente mi è rimasta l’abitudine di leggere ogni giorno La Stampa. Sono dieci anni che non vedo Torino, mi dicono che è cambiata, è più bella. Prima o poi miei figli mi faranno questo regalo. Potremmo rifare la foto alla stazione, sarebbe simpatico». E pazienza per il ciuffo.