Gigi Vesigna, Oggi 3/1/2014, 3 gennaio 2014
TV 60 ANNI SPETTACOLARI
Milano, gennaio
3 gennaio 1954. Non sono ancora le otto di sera e che ci faccio io a 20 metri dal suolo, sul soffitto di uno studio televisivo? Tra meno di un mese compio 22 anni e sono lì, in bilico, cercando di guardare in basso il meno possibile. Ma il rischio vale le candela: stasera nasce ufficialmente la tv in Italia...
L’Italia del 1954 conta 2 milioni di disoccupati; il reddito medio pro capite è di 258 mila lire; le automobili che non riempiono ancora le strade sono 600 mila. Un televisore da 14 pollici costa 160 mila lire, ma l’impianto con l’indispensabile antenna viene 250 mila lire. Nel 1953 i teleabbonati sono solo 178 ma nel febbraio 1954 diventano 24 mila e a fine anno arrivano a 77 mila 760. Per la cronaca mio padre era titolare di una piccola azienda che forniva strumenti elettrici di misura proprio alla Rai e quindi la tv “abitava” con noi. Ogni sera c’era una specie di riunione di condominio con i vicini che venivano “a dare un’occhiata”. Mia mamma in poltrona, gli altri attorno e Schizzo, il mio gatto nero che dormicchiava indifferente (salvo una volta, nelle immagini cadde un albero e lui si spaventò credendo che gli piombasse addosso). Fu lui nel 1961 a ispirare la nascita del Telegatto, la statuetta i cui baffi troppo appuntiti ferivano i premiati. Divenne però tanto ambita che miti del cinema come Stallone, Schwarzenegger, Gregory Peck, Sharon Stone e Sophia Loren venivano fin da Hollywood.
Quella sera del ’54, dunque, ero lassù, ma avevo seguito attraverso i teleschermi tutta la liturgia di preparazione del fatidico giorno dell’inaugurazione - già allora mi impicciavo di televisione collaborando a Settimana Radio Tv - e quindi sono in grado di descrivere quella prima giornata di programmazione annunciata da Fulvia Colombo, primo volto ad apparire sul teleschermo di casa. Gentile, anzi soave, la prima “signorina buonasera” abitava a due passi da corso Sempione ed era la figlia di un alto dirigente della Fiera di Milano. La sua storia è drammatica perché, caduta in un esaurimento nervoso dopo pochi anni di carriera, era stata dimessa dalla Rai e se n’è andata, in miseria.
«RAGAZZINO, SEI MATTO»
Brevissima cronaca di quella prima volta: discorsi di ministri, vescovi, giornalisti (tre) che presentavano il palazzo della Rai in corso Sempione; poi un concerto, un film, un documentario, il primo tg condotto da Furio Caccia da Milano e da Roma da Riccardo Paladini, diventato famoso per le sue orecchie a sventola. Erano le 20.45. Poi un garbato talk show, tradotto maldestramente in «intrattenimento con parola», e finalmente la prima vera produzione, L’Osteria della Posta, atto unico di Carlo Goldoni con Isa Barzizza, la soubrette che in guêpiere aveva reso ancora più famosa e appetitosa una famosa scenetta di Totò ambientata in un vagone letto.
Bene, quel 3 gennaio, sospeso a 20 metri da terra, ho avuto l’occasione - unica direi - di veder girare L’Osteria della Posta in diretta perché Sante Giola (un fotografo della Rai, mio amico) mi aveva fatto salire di nascosto sino alle paratie del soffitto dello studio dove si realizzava quello che sarebbe rimasto il primo lavoro di prosa della nostra tv. A vederlo da lassù, praticamente in asse, sembrava di assistere a una partita a scacchi dove da una parte c’erano le telecamere e dall’altra gli attori che si muovevano praticamente in sincrono. Naturalmente da lassù non ho sentito neanche una parola. Quando l’ho raccontato alla Barzizza ha scosso la testa e mi ha detto: «Ragazzino, sei matto, hai corso il rischio di caderci addosso o di essere arrestato».
Nata e battezzata, la tv trovò subito il suo primo mentore, un giornalista italoamericano miope e gentile, Michael Bongiorno detto Mike, che conobbi perché era la star dei fotoromanzi di Bolero film, un giornale per il quale ho lavorato dopo la chiusura di Teletutto, che pubblicava il palinsesto del Programma Nazionale (così allora si chiamava Rai 1). Con Mike - cosa normalmente assai difficile - entrammo subito in confidenza e lui mi raccontò, tra l’altro, di quando, arrestato come presunta spia americana e minacciato di fucilazione, si ritrovò nella stessa cella con un altro grande comunicatore, Indro Montanelli.
Poco tempo dopo Mike mi invitò a collaborare con lui: si trattava di andare a intervistare i suoi futuri concorrenti, capire i loro gusti e preparare una scheda che poi lui usava per le trasmissioni. Una specie di ghostwriter, come si dice oggi (allora lo chamavano più brutalmente “negro”). E anche quando andò per la prima volta a Sanremo, mi chiese di scrivere le presentazioni delle canzoni con i cenni biografici dei cantanti. Era divertente e per di più io ero sempre “dentro” la notizia.
In Rai il grande successo di Bongiorno suscitava pericolose allergie tanto che fecero di tutto per non assegnargli mai il Festival. Prima ci mandarono un compassato Armando Picco, poi Fausto Tommei, Enza Sampò, Paolo Ferrari, Lilly Lembo, Giuliana Calandra, Renato Tagliani e Laura Efrikian. Poi, finalmente, chiamarono lui. Era il 1963 e Mike volle celebrare l’evento chiamando accanto a sé le quattro vallette che lo avevano accompagnato nella sua carriera, Rosanna Armani (sorella di Giorgio, che era stata al suo fianco alla radio), Maria Giovannini (che, dopo alcune puntate di Lascia o raddoppia se ne era andata allettata dal richiamo di un cinema che l’aveva subito ripudiata), Edy Campagnoli (la soave compagna del quiz più famoso della tv) e Giuliana Copreni (una giovante modella-aspirante attrice che Mike aveva fatto debuttare nella trasmissione Caccia al numero, forse l’unica prova opaca di Mike ma che comunque era stata scelta nel ’62 per inaugurare l’era del quiz).
MIKE ERA UN PO’ TIRCHIO
Nacque subito l’idea di una copertina e così loro quattro, io, un fotografo e una bottiglia di champagne lo raggiungemmo nel suo attico in piazza San Babila. Tutto andò per il meglio finché nel momento dell’inevitabile brindisi, apparve un’altra bottiglia di bollicine, ma stavolta dentro c’era acqua: «Tanto», sentenziò Mike, «nelle foto non si vede». Quando scendemmo, Rosanna Armani entrò nel bar sottostante e ordinò sette cappuccini con brioche: «Mi raccomando», disse, «le porti subito al signor Bongiorno che ha ospiti».
Mike nell’ambiente era soprannominato «L’uomo dal braccio corto» per la sua esagerata parsimonia. Ma una volta mi sorprese. Eravamo nel bar degli studi della fiera in Rai (ora smantellati) e mi invitò a bere un caffè. Ordinò e, nel prendere il resto, una monetina gli cadde nel cestino sotto la cassa. Cercò un po’ sul pavimento, poi afferrò il telegrande cestino di metallo e lo rovesciò in terra, cercando col piede tra i tovagliolini e, quando trovò la sua moneta, si rialzò tranquillo e bevemmo il caffè.
Parecchi anni dopo, in una puntata di Porta a porta dove ero con Sabina Ciuffini, ospite di Vespa proprio per celebrare Mike, Bruno mi chiese se conoscessi almeno un difetto di Bongiorno: raccontai l’episodio del bar e Mike, subito: «Però il caffè l’ho pagato io!». A volte Mike si divertiva a fare il talentscout. L’ultima volta fu durante le registrazioni di una puntata di La ruota della fortuna: mi parlò di un giovanotto dai capelli un po’ troppo lunghi e dagli occhiali un po’ troppo grandi. «Viene da Firenze e mi sem bra un possibile conduttore televisivo, potrebbe diventare un mio rivale con in più una parlantina toscana che lo rende simpatico al pubblico». Non gli diedi retta. Ricordo però le parole di Mike: «È garbato e spiritoso, mi ricorda Odoardo Spadaro, quello di La porti un bacione a Firenze. Questo, si chiama Matteo, Matteo Renzi».
LO SCOPONE CON CORRADO E LA CARRÀ
La popolarità, per molti anni, se la sono contesa Mike e Corrado, i due più famosi conduttori radiofonici dell’epoca: Bongiorno con Il motivo in maschera (1954-1955), Corrado con La Corrida - Dilettanti allo sbaraglio (1968-1979) una trasmissione che poi lo trasformò in una star tv su Canale 5. All’inizio Corrado faceva vita riservata in famiglia a Roma. A un certo punto mi chiese se fossi interessato a un servizio fotografico durante una festa per celebrare non so quale anniversario di matrimonio con moglie e figlio. Certo che mi interessava. Il servizio fu pubblicato ma di lì a poco uscì anche la notizia che quel matrimonio era andato in frantumi e Corrado aveva ufficializzato la sua relazione con Marina Donato, sua inseparabile assistente e donna di grande polso. Con l’arrivo di Marina, se ero a Roma, ero invitato a cena a casa loro. Marina cucinava bene e spesso dopo cena ci raggiungeva Raffaella Carrà per una partita a scopone.
Burrascoso e meraviglioso il feeling che legava Sandra Mondaini e Raimondo Vianello. Una volta ipotizzai una scappatella di Raimondo (vera) e Sandrina mi fece una telefonata di fuoco. La loro Casa Vianello esisteva veramente: quella in cui abitavano occupava l’attico e il superattico di una grande palazzina di Milano 2, lui viveva nel superattico praticamente davanti a un tele visore guardando ogni tipo di sport e lei se ne stava nell’attico disturbandolo il più possibile col telefono. «Tanto», mi spiegò lui, «io stacco il telefono e non ho il cellulare!». Una coppia d’amore vero, la loro. Ma Sandrina non dimenticava di essere come la gente si immaginava fosse. Una volta a una cerimonia alla Provincia di Milano eravamo entrambi tra i premiati e quando si veniva chiamati si leggevano le motivazioni e brevi note biografiche tralasciando, ovviamente, di rammentare l’età delle signore. Quando toccò a me, appena tornato al posto, mi disse sibilando: «Hai un anno meno di me, ma sai che li porti proprio male».
IL MISTERO DELLA FINE DI NOSCHESE
Volenti o nolenti ci si innamorava delle coppie televisive: chi non ha preso una cotta per quei due quasi adolescenti protagonisti di La freccia nera? Lui Sergio Reggiani, lei una Loretta Goggi vestita da uomo; cappa e spada, duelli, intrighi tratti da un romanzo di Stevenson. La Goggi è anche una grande imitatrice. Ma degli imitatori il re era Alighiero Noschese. La natura l’aveva dotato di superpoteri camaleontici per cui se parlava con te, dopo dieci minuti usava proprio la tua voce. Alighiero era una persona perbene e amava scherzare. Al Cantagiro un giorno ne combinò una grossa. Sapeva che il patron Ezio Radaelli amava entrare per primo in piedi sulla spider ammiraglia nel luogo sede di tappa. Ebbene Alighiero, imitando la voce del capo del servizio di scorta, indicò un altro itinerario e quando il Patron arrivò non c’era nessuno: erano andati tutti nella destinazione indicata da quella voce perfettamente imitata. Un giorno arrivò la notizia che Noschese era stato trovato morto nel giardino di una clinica romana dove era ricoverato e tutto faceva pensare a un suicidio, c’era persino la sua pistola. Pochi giorni prima Noschese mi aveva telefonato dicendosi preoccupato per una telefonata ricevuta, insomma sembrava in uno stato di confusione, ma il medico diceva che tutto andava bene anche se c’era stato un peggioramento nello stato depressivo. Voci incontrollate sussurrarono, poi, che qualcuno avesse “costretto” Noschese a fare alcune telefonate, con la voce di un politico, ad altri politici. Nella stessa clinica era ricoverato anche Giulio Andreotti. Finì lì, ma quella pistola com’era entrata in clinica?
Ma quella tv era davvero ben fatta? Per chi la guardava aveva un effetto ipnotizzante. Una cosa è certa: aveva dato agli italiani la grande opportunità di conoscere meglio la lingua del Paese. L’Italia, si disse, non l’ha unificata Garibaldi, ma la tv. E piano piano anche in Italia si cominciò a parlare di tv a colori. Il 1° gennaio 1971 Rosanna Vaudetti annunciò l’inizio delle trasmissioni a colori in via sperimentale, ma ci vollero due anni perché tutti potessimo vederla davvero. C’erano due sistemi per trasmettere a colori, il Secam adottato solo dalla Francia, e il Pal, inventato dai tedeschi e adottato in tutta l’Europa: la scelta sembrava facile, ma ci complicammo la vita e cominciammo a discutere. Solo dopo due anni, il 15 dicembre 1979, la tv a colori arrivò nelle nostre case con il Pal.
IL PROCESSO DI ARBORE
Ma quella del colore non fu una rivoluzione come quella che il 3 gennaio 1957 portò nelle nostre case la réclame di Carosello. In qualche modo certe abitudini cambiarono: i bambini, per esempio, impararono che dovevano andare a letto dopo Carosello, che si concludeva quasi alle 21. Quella sigla incalzante, «tatatatttatatatà», ci restò appiccicata per una decina d’anni. Assieme ai messaggi che diventarono slogan. A una ragazza si diceva: «Con quella bocca puoi dire ciò che vuoi», come a Virna Lisi smagliante protagonista di una réclame su un dentifricio; «Sempre più in alto!», si esultava per una vittoria sportiva, imitando Mike sul Cervino con la bottiglia di grappa in mano; e Calimero così piccolo e nero, e ancora «Non sono mica Jo Condor!».
Be’, questa l’ha usata anche in una recente intervista il nostro premier Enrico Letta. Solo in pochi sapevano che quella ossessiva musichetta era la versione strumentale di una tarantella napoletana del 1825 intitolata I pagliacci.
Renzo Arbore inventò una tv davvero alternativa. Era “l’altra”. Come L’Altra domenica che contrastava quella rassicurante di Corrado e che lanciava personaggi come Roberto Benigni, anomalo critico cinematografico, Isabella Rossellini, pungente opinionista, e Milly Carlucci che era ancora e solo un’atletica vamp acqua e sapone. Arrivarono Quelli della notte e fu subito tendenza, e poi Indietro tutta, Marisa Laurito, Nino Frassica. Tra il ’69 e il ’71 organizzò Speciale per voi, una specie di tribunale dove i giovani fruitori di musica potevano chiedere ai loro cantanti preferiti quel che volevano. Un processo spietato che un giorno fece uscire dallo studio in lacrime Caterina Caselli.
Non c’erano ancora le fiction, ma intanto pescando nella nostra letteratura “guardammo” i romanzi classici italiani, da Il mulino del Po, un vero capolavoro realizzato da Sandro Bolchi, a Piccolo mondo antico e I promessi sposi; mentre la voce di Alberto Lupo, protagonista di La cittadella, secondo un critico, aveva sulle signore di una certa età l’effetto di un orgasmo. Era popolarissimo e quando duettò con Mina in Parole, Parole, Parole quella popolarità divenne un plebiscito.
Alice ed Ellen Kessler arrivavano da Monaco di Baviera: gambe lunghissime, sincronismo perfetto, fecero esplodere i benpensanti della tv che le obbligarono a coprirsi con calze nere spessissime che le resero ancora più sexy. Anche con loro ho avuto una specie di amicizia: quando nel 1974 i Mondiali di calcio si svolsero in Germania, organizzammo un servizio fotografico con Gigi Riva e le gemellissime che “fingevano” di giocare al pallone con lui.
LE CASE GEMELLE DELLE KESSLER
Alice ed Ellen avevano una dote piuttosto rara tra le star: la simpatia. La loro casa di Monaco era unica, ma doppia. Nel senso che, entrando da due cancelli simili e percorrendo due sentieri simili, ognuna arrivava alla propria casa e così, sempre unite dalla professione, potevano godersi in pace la loro privacy quando ne avevano voglia. «Tanto al pallone vinciamo noi...», dissero all’unisono le gemelle e ci presero alla grande: la Germania nella finalissima battè l’Olanda per 2 a 1.
Qualche tempo dopo avevo un appuntamento con loro per un’intervista al Teatro delle Vittorie, il tempio del varietà televisivo, ma c’erano le prove e bisognava entrare dall’ingresso degli artisti: niente da fare. Insistetti e chiesi che almeno qualcuno domandasse se e quando potevo entrare. Un amen e loro fanno capolino, mi prendono sottobraccio e mi fanno entrare come una star. Mentre varcavo la sacra soglia dentro di me cantavo La notte è piccola per noi troppo piccolina e mi sentivo come Alberto Sordi quando nell’episodio Il dentone nel film I complessi entrava trionfalmente proprio come me al Delle Vittorie. Da poco ero diventato direttore, ma a loro poco importava: con la memoria di un elefante moltiplicato per due mi ricordarono che avevano visto giusto ed erano loro i campioni del mondo in carica.