Massimo Mucchetti, l’Unità 3/1/2014, 3 gennaio 2014
ORA CI VUOLE UN AUMENTO DI CAPITALE
Con il gran botto di Capodanno Sergio Marchionne ha scatenato gli applausi di tanti. Il più fragoroso è stato quello della Borsa che, facendo propria la soddisfazione di John Elkann, presidente della società, ha impresso un rialzo del 15% alle quotazioni della Fiat. Una reazione, come vedremo subito, più che giustificata. Altri applausi senza se e senza ma, invece, suonano un po’ precipitosi, dettati dalla tendenza nazionale a correre in soccorso del vincitore prima di avere adeguata notizia se il vincitore abbia vinto anche per il Paese. Vediamo perché. Per cominciare va detto che Marchionne ha fatto fare un ottimo affare alla società per azioni Fiat. I numeri lo testimoniano. La Fiat possedeva già il 59% della Chrysler. L’aveva pagato quasi 1,9 miliardi di dollari, essendo il primo 35% venuto senza esborsi di cassa. Ora incamera il 41% del Veba Trust, il fondo sanitario dei dipendenti, per 3,65 miliardi di dollari più 700 milioni diluiti in quattro anni (600 se attualizzati). Sulla base di questa transazione, l’intera Chrysler viene valutata oltre 10 miliardi di dollari, una somma inferiore alle stime di taluni analisti e certo, fatte le proporzioni, ai valori di Ford e Gm. Il prossimo bilancio della Fiat recherà una plusvalenza teorica lorda sulla partecipazione totalitaria Chrysler di oltre 3 miliardi di euro. Vedremo, dopo i fuochi d’artificio, come il mercato finanziario consoliderà i suoi giudizi.
Dato a Sergio quel che è di Sergio, eccoci con alcune osservazioni che, sul piano aziendale, dovrebbero suggerire cautela, specialmente da questa sponda dell’Atlantico dove la produzione è ai minimi storici e tanta gente sta ancora in cassa integrazione. Le fonti del pagamento al Veba Trust aprono interrogativi non banali. Chrysler aveva, alla fine del 2012, un patrimonio netto negativo per 7,5 miliardi di dollari. A fine 2013 il dato sarà senz’altro peggiorato perché questa è la tendenza costante dal 2009, anno della rinascita di Chrysler sotto il segno della Fiat e prim’ancora della Casa Bianca, per effetto delle crescenti esposizioni per pensioni e spese sanitarie, di cui la Fiat diventa responsabile in solido. Ora, una società in tali condizioni patrimoniali si indebita per 2,1 miliardi di dollari per darli agli azionisti Fiat e Veba e per pagare la prima rata dei 700 milioni di premi sempre al Veba. In Italia una simile mossa sarebbe illegale. Negli Usa no. Là le società possono avere un patrimonio netto negativo fino a quando i creditori vengono pagati. Da noi si è più prudenti. Quando ti mangi il capitale o lo si ricostituisci o porti i libri in tribunale. La Gm e Chrysler sono fallite dalla sera alla mattina, ancorché i loro bilanci fossero pubblici. E sono state salvate dal governo con fondi pubblici. Sulla partecipazione che aveva in Gm il Tesoro Usa ha perso 11 miliardi di dollari. Sulla Chrysler è ancora fuori di un paio di miliardi relativi alla Old Carco, la bad company in liquidazione. Da noi, la Fiat venne salvata nel 2002 dalle banche creditrici che consentirono a Marchionne di lavorare. Non dallo Stato. È difficile dire, alla fine della giornata, quale dei sue modelli sia il migliore. Certo, chi in Italia invoca gli Usa dovrebbe cominciare a cambiare la legge fallimentare e ad auspicare un intervento pubblico assai maggiore di quello che un tempo usava anche da noi. Se discetta solo di questioni sindacali, discetta di troppo poco. Qualcuno, citando i giornali, dirà che il Veba Trust è stato pagato usando la liquidità. Purtroppo, i giornali talvolta dimenticano che il bilancio è una partita doppia: all’attivo c’è la liquidità, che rende quasi nulla, al passivo i debiti, che costano un occhio della testa se non si ha il rating tripla A. Nel 2012, giusto per dare un’idea, Chrysler ha pagato 1,2 miliardi di oneri finanziari e ha incassato 44 milioni di proventi. Sarebbe meglio non doverla tenere la liquidità se è la contropartita di un debito oneroso anziché il lascito di utili non reinvestiti o non distribuiti. La Fiat, a sua volta, limita a 1,75 miliardi di dollari il suo esborso diretto. E questo è bene in una logica puramente Fiat, essendo anche questa somma finanziata a debito. Ma nella logica complessiva Fiat-Chrysler il gran botto di Capodanno altro non è che una operazione di leveraged buy out come direbbe Marchionne fatta a valere su un gruppo che ha già 28 miliardi di debiti e 17 di liquidità.
Alcuni esponenti della politica, più diplomatici di me, hanno unito il loro all’applauso della Borsa auspicando poi investimenti in Italia. Vorrei farlo anch’io, ma per ora me ne astengo. Prima, vorrei capire quale fondamento migliore di prima abbia oggi l’auspicio di un’inversione di tendenza della Fiat rispetto all’Italia avendo il gruppo 4 miliardi di meno in cassa ovvero dovendo fare 4 miliardi di debiti in più. Sarei curioso di leggere gli accordi con il sindacato americano. In cambio di che cosa viene erogato il premio di 700 milioni in quattro anni. Se permettete, io non capisco che cosa voglia dire in concreto la maggior collaborazione al World Class Manufacturing, come gira la cosa in busta paga, negli orari.
Il prossimo passo, questo è chiaro, sarà una qualche forma di fusione tra Chrysler e Fiat o Fiat Auto. Sarà una mossa ragionevole. Ma come avverrà? I sindacati italiani sanno quali saranno le ripercussioni sui centri di progettazione italiani, che Marchionne ha assai poco valorizzato pur essendo migliori di quelli americani se è vero che lo stesso Obama considerava la Chrysler indietro di 10 anni rispetto a Torino? E sanno che cosa ne sarà dei colletti bianchi posto che le fusioni si fanno per ridimensionare gli enti centrali? E quale sarà la politica dell’innovazione e con quali risorse verrà sostenuta visto che finora Chrysler ha campato rimodellando i modelli ideati dall’antica gestione tedesca e Fiat non può vivere di sola 500? L’idea che Marchionne sia un Robin Hood patriottico che toglie alla Chrysler per dare alla Fiat è una pia illusione. Marchionne investirà dove avrà le condizioni più convenienti. A partire dalla domanda regionale (dove regione sta per Italia ed Europa) per finire alle facilitazioni burocratiche, ai livelli salariali e ai contributi pubblici (di cui la Fiat va a caccia come tutti gli altri in tutto il mondo). La fusione potrebbe portare in Olanda la sede legale della Fiat con Chrysler incorporata. È già accaduto con la fusione Fiat Industrial-Cnh. Il rischio – bisognerà verificare – è che si sottragga base imponibile al fisco italiano. Mi domando se non sia il caso di rivedere, prima che accada, l’exit tax. Se palazzo Chigi, da chiunque sia abitato, non riuscirà a esercitare la moral suasion sulla prosecuzione dell’impegno in Italia (come fa il grippo Prada che ritorna), che almeno si difenda qualcosa per l’Agenzia delle entrate.
Conclusione. Sia Fiat sia Chrysler non sono società investment grade. Pagano carissimo il denaro. Buona parte del margine va ai finanziatori. L’operazione lanciata da Marchionne scommette sulla ripresa in Italia e in Europa, sulla tenuta del Brasile e sulla prosecuzione del buon momento del mercato Usa. Così da realizzare guadagni che consentano di abbassare il debito e ridurre l’oneroso fardello della liquidità ferma in cassa per far fronte a un’eventuale crisi di fiducia. Se qualcosa va storto, il gruppo Fiat-Chrysler faticherebbe a reggere. Ci vorrebbe un aumento di capitale. Ma è esattamente quanto Marchionne nega. Lo aspettiamo in Senato per saperne di più. Dai primi di agosto ha sulla scrivania un invito del presidente Grasso.