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 2014  gennaio 07 Martedì calendario

HERLITZKA: «BERNHARD È COME ME»

«Bernhard mi piace enorme­mente perché, in qualche modo, è come me». Roberto Herlitzka, volto scavato e ironia da vendere, sta diven­tando l’alter ego teatrale del lucido e feroce scrittore au­striaco, già portato in scena da ’grandi vecchi’ come Gianrico Tedeschi o mattatori come Franco Branciaro­li. Ma da qualche anno l’attore torinese di origine ceca si è particolarmente appassionato alle invettive umane e sociali di Thomas Bernhard, di cui ha già portato in sce­na in anteprima italiana Elisabetta II e Il gelo. Herlitzka da domani sarà al Teatro Franco Parenti di Milano, do­po l’applauditissimo debutto romano, con un’altra no­vità assoluta per l’Italia, Il soccombente, capolavoro del­la letteratura del Novecento nella riduzione teatrale di Ruggero Cappuccio e regia di Nadia Baldi.
Un testo che affronta, con il solito torrente di parole sferzanti, i temi del talento, della perfezione e della frustra­zione per l’impossibilità di raggiungerla. Che è quella che assale due giovani amici, Wertheimer e l’io narrante, giunti a Salisburgo per frequentare un corso di perfe­zionamento pianistico tenuto da Horowitz. Lì divente­ranno amici di un ragazzo singolare, Glenn Gould: ma quando lo ascolteranno interpretare Bach in modo i­narrivabile, le loro vite ne resteranno traumatizzate. Comprendono che il loro amico canadese è un genio e il loro futuro è compromesso per sempre.

Herlitzka, non vorrà dirci che anche lei è un misan­tropo come Thomas Bernhard?
«Non sono un misantropo, ma devo ammettere che lo sento vicino, anche se è un autore che tiene a grande di­stanza tutti. Mi ritrovo in quello che esprime e raccon­ta: c’è sempre una verità che andando a scavare rico­nosci nelle persone vicine a te o, addirittura, in te stes­so. Bernhard riesce, senza minimamente essere natu­ralista o realista, ad entrare nel cuore della realtà. È uno scrittore straordinario. Sbotta in un profluvio di male­dizioni, ma sono sempre rese accettabili dall’ironia che lui applica anche a se stesso e che lo rende simpatico».
Qui lei però, stavolta, non interpreta un anziano ter­ribile, ma dà voce a due giovani in crisi che perdono il loro futuro. Come quelli di oggi?
«I due protagonisti del Soccombente il futuro se lo bloc­cano da soli, ma almeno, a differenza dei ragazzi di og­gi, hanno avuto la possibilità di averne uno. Sono en­trambi due promettenti pianisti, non due mediocri, che si trovano di fronte a un genio, ed essendo in grado di capire, si rendono conto di quanto sia lontano quel mo­dello da quello che loro possono fare. Uno (lo stesso Bernhard) si dedica ad altro, probabilmente la scrittu­ra, l’altro si lascia andare alla disperazione, si mette a leg­gere i filosofi, a torturare la sorella, e, alla fine, si impic­ca. Un ’soccombente’, appunto, davanti a un ideale troppo alto».
Ma chi sono i soccombenti di oggi?
«Forse sono le persone normali, quelle che non ce la fanno a campare. E le persone sensibili, come appunto lo è il musicista che non ce la fa, un soccombente intellettuale, una persona che ha già una fragilità insupera­bile, e se fosse meno sensibile di come è, camperebbe lo stesso».
Lei, però, non è un soccombente. Le sue scelte tea­trali sono sempre state indipendenti.
«Io le cose le faccio da me, i teatri stabili mi ignorano, a parte quello di Trieste con Antonio Calenda, non so per­ché e non mi interessa neanche più. Io ho sempre la­vorato con compagnie alternative, giovani, quelle che mi hanno proposto cose che mi piacevano. Ciò mi dà il vantaggio, non economico, di fare sempre quello che vo­glio, di non dipendere da nessuno e di non essere co­stretto ad accettare una parte che non mi piace, in cambio di un contentino».
Dopo una lunga e gloriosa carriera, se lo può permettere. Anche lei alla ricerca della perfezione dell’arte?
«Non si finisce mai di migliorarsi e di studiare. Il mio è stato un percorso lungo iniziato tanti anni fa grazie al grande regista Orazio Costa, un incontro all’Accademia di Arte Drammatica che mi ha illuminato, mi ha fatto capire quanto sia lunga e difficile la strada, e che per ot­tenere dei risultati bisogna lavorare sodo. Non basta in­segnarlo. Costa mi ha fatto vedere dei risultati recitan­do lui stesso: era un maestro meraviglioso, perché reci­tava meravigliosamente non in scena, ma per noi quan­do insegnava. Uno faceva di tutto per imitarlo, otte­nendo risultati pessimi, ma accumulando dentro di sé esempi che poi sarebbero maturati».
Oggi mancano i maestri: lei ha mai pensato di inse­gnare?
«Per carità, io ho la vocazione contraria. Mi hanno pro­posto tante volte di insegnare, ma occorre esserci por­tati: io finirei per nuocere. Però è vero che oggi occor­rono maestri seri».
Apprezziamo la modestia, ma lei fra un po’ rischia di finire agli Oscar con «La grande bellezza» di Sorrenti­no.
«Beh, se sarà l’Oscar non lo daranno a me, anche per­ché faccio solo un cameo. Il cinema l’ho sempre amato moltissimo, ma è difficile conciliarlo col teatro perché hanno tempi diversi. Il ruolo che mi ha cambiato la vi­ta professionale al cinema è stato quello di Aldo Moro in Buongiorno notte di Bellocchio. Ultimamente am­metto di avere avuto molto suc­cesso con alcune piccole parteci­pazioni a film importanti, ma sin­ceramente mi piacerebbe che mi offrissero dei ruoli più fondamen­tali ».
Di recente, però, l’abbiamo vista protagonista di opere molto in­tense come «Sette opere di mise­ricordia» dei fratelli De Serio.
«Questo grazie ai giovani che mi cercano molto, e io accetto subi­to. I film sono bellissimi, poi però vengono buttati via. Se devo dire i film che ho amato di più ci sono, oltre a Sette opere, Il rosso e il blu di Piccioni e Narciso di Giovanni D’Angelo che nessuno vedrà mai. Il sistema italiano distrugge il no­stro cinema, la distribuzione in I­talia è mercantile, si crede di an­dare sul sicuro con dei nomi che dovrebbero garantire il successo, cosa che invece spesso non è. Ma a rimetterci sono i giovani autori e registi, che alla fine cambiano me­stiere».
E il teatro italiano come è messo?
«Dicono che sia in crisi, ma oggi tutto è in crisi. Io vedo spesso spettacoli che mi piacciono. In un certo senso è in una situazione più difficile il cinema. Perché la crea­tività dei giovani non viene sostenuta, ha bisogno di più mezzi finanziari, e poi il cinema è stritolato da internet. Il teatro, invece, si può fare senza una lira e ovunque, in più l’attore dal vivo non te lo puoi scaricare sul telefonino».
Altri progetti al cinema?
«Ad aprile uscirà il film Io, Arlecchino, scritto, diretto e interpretato da Giorgio Pasotti. Io faccio un vecchio Ar­lecchino di provincia, che passa testimone a suo figlio, appunto Pasotti. Se mi avessero detto che avrei fatto Ar­lecchino non ci avrei mai creduto: mi ha sempre affa­scinato, ma è non nel mio raggio di azione. Ho vissuto l’atmosfera straordinaria del Piccolo, lavorando con Strehler. Lui evocava questa maschera con tutte le con­venzioni teatrali che si porta dietro, ma sapeva gestirle in modo straordinario. Perché Arlecchino piace ancora tanto? È una figura nata in modo felice, sembrava il per­dente, invece ha trionfato sopra tutti i suoi colleghi».