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 2014  gennaio 05 Domenica calendario

ARTICO, SUI GHIACCI L’ULTIMA BATTAGLIA GLOBALE

In questo primo scorcio di secolo ci sono alcune questioni ambientali (cambiamento climatico, buco del­l’ozono, esaurimento risorse) e sociali (spostamenti di enormi masse di po­polazioni, emigrazione, fuga da disa­stri naturali e da emergenze politi­che) di fronte a cui gli Stati come siamo abi­tuati a conoscerli dalla loro origine non han­no alcuna o quasi alcuna capacità di incide­re. Sembra che la forma nazione oggi non riesca se non a riaffermare interessi a tal pun­to di parte da diventare controproducenti per le nazioni stesse. La globalizzazione fi­nanziaria e delle merci, la forma presa dal sistema bancario e la deriva della disloca­zione produttiva rendono la forma nazione obsoleta. Nonostante ciò mai come adesso nell’agone internazionale è in ripresa una forma di antagonismo, di parcellizzazione degli interessi, di incapacità di andare oltre l’idea di frontiera e di confine.

La stessa Europa che potrebbe rappresenta­re per il resto del mondo una speranza di pa­ce e di cooperazione (non per nulla Il Nobel le è stato attribuito ’sulla fiducia’) invece non riesce a scrollarsi di dosso una logica ’ombelicale’ e di contrapposizione tra inte­ressi nazionali. Spesso queste incapacità, re­taggio della stessa concezione che sta alla base della forma nazionale, vengono paga­te a durissimo prezzo dalle popolazioni, in caso di emergenze climatiche ed ambienta­li, ma anche di crisi economiche e sociali.

In questo paesaggio emergono delle istitu­zioni che per storia o per fondazione anche recente concepiscono la propria azione co­me transnazionale e quindi riescono ad oc­cuparsi dell’umanità e non degli interessi di una singola popolazione. È interessante che tra queste istituzioni vi siano organizzazio­ni non governative come Amnesty Interna­tional, Medici senza Frontiere, Greenpeace, ma anche entità storiche come la Chiesa Cat­tolica o altre Chiese e movimenti religiosi. Il discorso che il Papa ha fatto durante la sua visita a Lampedusa era impressionante da questo punto di vista. In quell’occasione si è presentato come capo di una organizza­zione a cui sta a cuore la vita di tutti gli esse­ri umani e che ritiene questo valore ad di so­pra di qualunque questione di confine o di appartenenza etnica, religiosa, nazionale.

È questo il motivo per cui, se si tratta di que­stioni che riguardano il futuro dell’umanità, solo coloro che non sono legati agli interes­si di una singola nazione stanno diventan­do sempre più credibili per le vaste masse che vedono preoccupate la situazione mon­diale. È come se il mondo, sempre più colle­gato e interdipendente, non riesca ad espri­mere istituzioni allo stesso livello. I proble­mi sono transnazionali, le soluzioni no.

Prendiamo una questione che sta diventan­do sempre più rilevante anche se sembra tanto lontana da noi. La corsa all’Artico che vedrà sempre più impegnate diverse grandi potenze nel cercare di sfruttare l’ultima Thu­le rappresentata da questo continente gela­to che fino a qualche decennio fa sembrava solo un luogo inospitale e remoto. Oggi l’Ar­tico viene considerato l’ultima speranza per i Paesi che basano la propria ricchezza sul petrolio. Tra questi ci sono gli Stati Uniti, an­che se negli ultimi tempi i nuovi depositi di gas scoperti in patria e nuovi metodi di e­strazione tra cui il fracking vanno verso u­no sganciamento dal petrolio.

C’è l’Inghilterra e ov­viamente c’è la

Russia che è partita per prima nella corsa. Soprattut­to perché l’economia russa si basa sull’e­sportazione di combustibili fossili, dal gas, al petrolio, al carbone.

Il motivo che spinge la Russia a estrarre dal­l’Artico è la previsione di declino della pro­duzione di petrolio prevista per il 2020. La piattaforma russa della Gazprom nell’Artico, costata 4 miliardi di dollari, andrà in produ­zione nel 2014 ed è la prima che lo fa in un’a­rea dove il mare è ghiacciato per due terzi dell’anno. I rischi ambientali sono enormi: nessun piano di emergenza è stato reso pub­blico e delle poche cose che si sanno è che una eventuale base operativa per un inci­dente sarebbe a Murmansk , a 1000 chilo­metri a sud, e quindi tanto lontana da ren­dere difficile ogni intervento, soprattutto con mare mosso.

Le normali tecniche per intervenire in caso di disastro, con solventi o altro non servono a quelle temperature. 3000 miglia di coste sono a rischio per un incidente del tipo di quello avvenuto nel 2010 per la piattaforma Bp Deepwater Horizon nel Golfo del Messi­co. La Shell, che voleva aprire una piat­taforma in Alaska nel 2012 l’ha ’persa’ in u­na tempesta che le è costata un miliardo di dollari. Il Financial Times ha rimprove­rato la Shell di non avere considerato il rischio e soprattutto di continuare a pen­sare che ’valga la candela’ (nel senso che oggi gli investimenti per cercare nuovi giacimenti non vengono ricompensati se non dopo decenni).

Recentemente l’Ipcc, la Commissione In­tergovernativa sui cambiamenti climatici dell’Onu ha rilasciato un Quinto Rapporto che conferma come i cambiamenti climati­ci siano responsabilità umana e primaria­mente per l’uso delle fonti fossili. Ha anche affermato che per evitare conseguenze ca­tastrofiche sul clima i ¾ delle risorse fossili restanti dovrebbero rimanere sotto terra.

Quindi l’Artico è l’ultima Thule della spe­ranza petrolifera, ma è anche il luogo in cui si gioca il destino della Terra tutta. Il proble­ma è che i singoli interessi nazionali sem­brano prevalere, al punto tale che anche u­na protesta pacifica ed in acque internazio­nali come quella di Greenpeace ha sortito l’effetto di una reazione furibonda di abbor­daggi e arresti (e fortunatamente successivi rilasci) dichiarata illegale dall’Organismo del­le Nazioni Unite che regola il diritto del ma­re (a cui la Russia afferisce, ma a cui dice di non volere obbedire).

La tragedia è che siamo di fronte a due logi­che diverse. Una vecchia e disperata, che vuole le ultime gocce di petrolio del Piane­ta, ed una ai suoi albori che vorrebbe che si ragionasse pensando ad un bene comune ’transnazionale’ nell’ottica di una umanità che voglia salvarsi e salvare il pianeta. È una partita che si gioca nei prossimi mesi e an­ni, e in cui la speranza sta dalla parte di chi voglia porsi al di sopra delle frontiere e del­le logiche di contrapposizione. Mai come a­desso il mondo è un Titanic avviato verso un iceberg. Solo un miracolo ci può salvare, ma potremmo essere in grado di provocarlo.