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 2014  gennaio 03 Venerdì calendario

Notizie tratte da: Robert Darnton, Il grande massacro dei gatti, Adelphi 2013.(vedi anche biblioteca in scheda 2254288e libro in gocce in scheda 2260616)Vedi Libro in gocce in scheda: 2332155Vedi Biblioteca in scheda: 2254288• Le fiabe francesi si formarono tra il Quattrocento e il Settecento nell’alveo della tradizione contadina

Notizie tratte da: Robert Darnton, Il grande massacro dei gatti, Adelphi 2013.

(vedi anche biblioteca in scheda 2254288
e libro in gocce in scheda 2260616)

Vedi Libro in gocce in scheda: 2332155
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• Le fiabe francesi si formarono tra il Quattrocento e il Settecento nell’alveo della tradizione contadina. Per secoli furono tramandate oralmente: gli abitanti del villaggio le apprendevano nelle veillées, le riunioni serali intorno al fuoco durante le quali gli uomini riparavano gli attrezzi e le donne cucivano raccontando storie già vecchie di secoli; i figli dei benestanti nei quartieri della servitù, dove trascorrevano la prima infanzia, prima cullati con i canti popolari delle balie e poi dilettati con le fiabe delle vecchie comari. Così le apprese probabilmente lo stesso Charles Perrault (1628-1703), autore della prima grande raccolta di fiabe francesi, I racconti di Mamma Oca (1697).

• Le fiabe contadine rispecchiano fedelmente il quadro sociale in cui nacquero: uomini stremati dal lavoro nei campi, donne affaccendate nella cura della casa, della famiglia e del podere, bambini impiegati a lavorare insieme ai genitori sin dalla prima infanzia. La morte era una presenza quotidiana: la metà dei figli non raggiungeva l’età adulta e molte madri morivano durante il parto. «I contadini francesi della prima età moderna vivevano in un mondo di matrigne e di orfani, di inesorabile, incessante fatica e di brutali emozioni, a un tempo rozze e represse».

• «Talvolta i genitori soffocavano i neonati nel letto comune – un incidente tutt’altro che raro, a giudicare dagli editti vescovili che proibivano ai genitori di dormire con i bambini che non avessero compiuto il primo anno. Famiglie intere si stipavano in uno o due letti e si circondavano di animali per stare al caldo. Così i bambini diventavano spettatori partecipi delle attività sessuali dei genitori. Nessuno pensava a loro come a creature innocenti, o all’infanzia stessa come a una fase particolare della vita, nettamente distinguibile dall’adolescenza, dalla giovinezza e dall’età adulta grazie a differenti forme di vestiario e di comportamento. I figli lavoravano al fianco dei genitori quasi da quando sapevano camminare, e si univano alla forza lavoro adulta come braccianti, servitori o apprendisti non appena avevano superato i dieci anni».

• Tanta era, soprattutto, la fame. «Grandi masse di gente vivevano in uno stato di cronica denutrizione, campando soprattutto di zuppa di pane e acqua con l’aggiunta, ogni tanto, di un po’ di verdura proveniente dall’orto di casa. Mangiavano carne poche volte in tutto l’anno, nei giorni di festa o dopo la macellazione autunnale». Quello del cibo, e in particolare della prelibatissima carne, era pertanto il primo desiderio di ogni contadino, nella realtà di tutti i giorni come nell’immaginario folclorico. L’eroe delle fiabe contadine ambisce anzitutto a riempirsi la pancia a sazietà (manger à sa faim): se talvolta sogna di castelli e di principesse, molto più spesso i suoi desideri sono rivolti alle cose della quotidianità. «Un eroe ottiene “una vacca e delle galline”; un altro, un armadio colmo di biancheria. Un terzo si accontenta di un lavoro leggero, di pasti regolari e di una pipa piena di tabacco. E quando piove oro nel camino di un quarto, questi lo usa per comprare “cibo, vesti, un cavallo e della terra”. Nella maggior parte delle fiabe l’esaudimento del desiderio si traduce in un programma di sopravvivenza, non in una fantasia di evasione».

• Quando, nelle fiabe, un ragazzo si mette in viaggio per tentare la fortuna fuori dal villaggio, il pericolo è in agguato ovunque: all’epoca infatti la Francia non aveva una vera forza di polizia, e banditi e lupi vagavano liberamente; di notte i viandanti cercavano solitamente rifugio nei fienili o nella macchia, e anche quando riuscivano a pagarsi un letto in una locanda era alto il rischio di essere derubati o sgozzati. «Quando gli equivalenti francesi di Pollicino e di Hänsel e Gretel bussano alla porta di misteriose case nel fitto della foresta, l’ululato dei lupi alle loro spalle aggiunge una nota di realismo, non di fantasia. Certo, le porte sono aperte da orchi e streghe».

• «Mostrando come la vita era vissuta, terre à terre, nel villaggio e per la strada, le fiabe aiutavano i contadini a orientarsi. Tracciavano una mappa delle vie del mondo e facevano capire che era follia attendersi qualcosa che non fosse crudele da un ordine sociale crudele».

• Quello ritratto nelle fiabe è un mondo arbitrario e amorale, in cui la mala sorte colpisce a caso, imprevedibile e inesplicabile come la Morte Nera. «Poiché nessuna etica visibile governa il mondo in generale, la buona condotta non determina il successo, né al villaggio né per la strada»: la prima virtù dell’eroe contadino francese è quindi la furbizia, mentre la stupidità è il peggiore dei difetti. «Le fiabe francesi non mostrano alcuna indulgenza per gli idioti del villaggio o per una qualsiasi forma di stupidità, compresa quella dei lupi e degli orchi che non divorano all’istante le proprie vittime. Gli sciocchi rappresentano l’antitesi della strategia furbesca: incarnano il peccato di dabbenaggine, un peccato mortale, perché in un mondo di furfanti l’ingenuità è un modo di attirarsi disgrazie».

• «L’astuzia contrappone sempre il piccolo al grande, il povero al ricco, i derelitti ai potenti». Nelle fiabe i contadini francesi cercano un riscatto dai soprusi della vita quotidiana, deridendo e raggirando i loro angariatori, trasfigurati per esempio in stupidi giganti: «non ci voleva un grande sforzo d’immaginazione per vedere in essi i despoti in carne e ossa – banditi, mugnai, fattori, signori feudali – che nei loro villaggi rendevano miserrima la vita dei contadini».

• Nel corso dei secoli, tramandato pressoché indenne dalla tradizione orale e da raccolte come quella di Perrault anche alle classi sociali elevate, l’immaginario fiabesco contadino fu profondamente assimilato dallo spirito francese: «esso rappresenta uno stile culturale ben distinto; e comunica una particolare visione del mondo – il senso che la vita è dura, che è meglio non farsi illusioni sull’altruismo dei nostri simili, che lucidità e prontezza d’ingegno sono necessarie per proteggere quel poco che possiamo cavare dal nostro ambiente, e che la correttezza morale non porta da nessuna parte». Ancora oggi se ne possono trovare tracce in alcuni proverbi («Contro un furbo, un furbo e mezzo», «A buon gatto, buon topo», «Pancia vuota non ha orecchi», «Tutti devono campare, santi e ladroni»), e persino in certi modi colloquiali: Comment vas-tu? («Come stai?»), Je me défends («Mi difendo»).

• «Un indefinibile je ne sais quoi aleggia attorno ai gatti, qualcosa di misterioso che ha affascinato il genere umano fin dal tempo degli antichi egizi. Si può avvertire un’intelligenza quasi umana dietro gli occhi di un gatto. Il miagolio di un gatto in piena notte può essere scambiato per un grido strappato a forza da qualche parte profonda, viscerale della natura animale dell’uomo. I gatti hanno affascinato poeti come Baudelaire e pittori come Manet, che hanno voluto esprimere l’umanità degli animali insieme all’animalità degli uomini – e specialmente delle donne».

• I Francesi della prima età moderna attribuivano ai gatti una lunga serie di poteri occulti, non solo in connessione con la stregoneria e la magia nera. Il gatto esercitava i suoi poteri soprattutto all’interno del suo ambiente preferito, la casa, e in particolar modo sulla persona del padrone o della padrona, con i quali era quindi identificato. «Ammazzare un gatto significava attirare disgrazie sul padrone o sulla casa in cui abitava. Se il gatto abbandonava la casa o smetteva di saltare sul letto del padrone malato, la vita del paziente era in pericolo. Ma un gatto accucciato sul letto di un morente poteva essere il diavolo che aspettava il momento di portarne l’anima all’inferno».

• L’ambito in cui il potere del gatto era ritenuto più forte era l’aspetto più intimo della vita domestica: il sesso. «Nel gergo francese le chat, la chatte, le minet equivalgono all’inglese pussy, e per secoli sono stati usati come termini osceni. Il folclore francese attribuisce speciale importanza al gatto come metafora o metonimia sessuale. Già nel Quattrocento si raccomandava di accarezzare i gatti per avere fortuna con le donne. La saggezza dei proverbi identificava le donne con i gatti: “Chi tratta bene i gatti avrà una bella moglie”. Se un uomo amava i gatti, amava le donne, e viceversa. “Se vuol bene al suo gatto vuol bene anche alla moglie” diceva un altro proverbio. Di un uomo che trascurava la moglie si poteva dire che “ha altre gatte da pelare”. Una donna che voleva conquistare un uomo non doveva pestare la coda a un gatto: così rischiava di ritardare il matrimonio di un anno – o addirittura di sette, a Quimper, e di tanti anni quante erano le volte che il gatto aveva miagolato, in certe parti della valle della Loira. Dappertutto i gatti erano associati all’idea della fertilità e della sessualità femminile. Delle ragazze si diceva comunemente che erano “innamorate come gatte”; e se restavano incinte avevano “lasciato andare il gatto al cacio”».

• «I lamenti dei gatti in amore potevano far parte di un’orgia satanica, ma poteva anche trattarsi delle urla di sfida che un maschio lanciava all’altro quando le femmine erano in calore. Non erano però i gatti a lanciare la sfida. Essi agivano a nome del loro padrone e insieme lanciavano allusioni di natura sessuale sul conto della padrona: “Reno! François!”. “Dove vai?”. “A trovar tua moglie”. “A trovar mia moglie! Ah!”. Poi i gatti si sarebbero avventati gli uni sugli altri, […] e il sabba sarebbe finito in un massacro. Il dialogo mutava secondo la fantasia degli ascoltatori e il potere onomatopeico del loro dialetto, ma sottolineava in genere l’aggressività sessuale».

• «In tutta l’Europa della prima età moderna, il modo di vestire esprimeva un codice sociale. I gentiluomini portavano le brache, i lavoratori portavano i pantaloni. Le dame si vestivano di seta e di velluto, secondo la stagione; le donne comuni si vestivano di lana e di cotone, e non mutavano abito con la stagione». Ogni sorta di ornamento, dalle fibbie delle scarpe alle parrucche, distingueva le classi superiori da quelle inferiori.

• «Artigiani e lavoranti mangiavano a tutte le ore, durante il lavoro e nelle pause, perché mischiavano lavoro e svago in dosi irregolari per tutto il giorno. La tradizione voleva che durante l’orario di lavoro i muratori si fermassero otto volte per mangiare, mentre negli altri mestieri i lavoranti si fermavano in genere almeno quattro volte. Borghesi e nobili di toga, invece, sedevano a tavola alla stessa ora e consumavano gli stessi tre pasti: colazione, pranzo e cena. Nelle rare occasioni in cui mangiavano fuori andavano in una locanda rispettabile, tenuta da un hôte majeur, e pagavano il conto in una volta sola, mentre un artigiano andava in una bettola, tenuta da un hôte mineur, e pagava ogni piatto separatamente».

• «Il borghese moderno e il nobile moderno non bevevano fino all’ebbrezza e sceglievano vini di qualità, importati in genere da altre province. Artigiani e operai preferivano il gros rouge locale, che tracannavano in grandi quantità, gargarizzandolo perché facesse più effetto».

• Nel Settecento, «la buona società aveva abbandonato l’abitudine di trasformare i pranzi in orge, un’abitudine tipica sotto Luigi XIV, quando i banchetti erano maratone culinarie di venti o più portate; e preferiva invece quella che cominciava a delinearsi come la cuisine bourgeoise. I piatti erano meno numerosi ma più curati. Accompagnati da salse e vini adatti, obbedivano a una coregrafia comunemente accettata: potages, hors d’œuvre, relevés de potage, entrées, rôti, entremets, dessert, café e pousse-café. Ce n’è abbastanza per intimidire un mangiatore del moderno ceto medio, ma nel Settecento era la semplicità stessa. E la famiglia patrizia, quando non aveva ospiti, si accontentava di una sola entrée, seguita da rôti, salade e dessert».

• Durante la toilette del mattino una dama dell’aristocrazia o della borghesia prendeva il caffè «usando un servizio particolare, le déjeuné, che comprendeva un vassoio, una caffettiera, una cuccuma per la cioccolata calda, una ciotola per l’acqua bollente, una ciotola per il latte caldo e una serie di coltelli, forchette e cucchiai, il tutto d’argento; poi una teiera, una zuccheriera e varie tazze, tutte di porcellana; e infine un portaliquori con un’ampia scelta di cordiali in eleganti caraffe di cristallo».

• Nel Settecento, secondo il nuovo gusto della semplicità, «le famiglie patrizie riducevano il numero dei servitori ed eliminavano la livrea. Rinunciavano ai banchetti in pompa magna, tra uno stuolo di domestici, per godersi un pranzo in famiglia. Quando costruivano nuove case, volevano stanze più piccole e aggiungevano corridoi, in modo da poter dormire, vestirsi e conversare con maggiore intimità. La famiglia si ritraeva dalla sfera pubblica e ripiegava sempre più su se stessa».

• Secondo un censimento della polizia parigina, «nel 1750 l’età degli scrittori era compresa tra i novantatré anni (Fontenelle) e i sedici (Rulhière), ma la maggior parte di essi era relativamente giovane. A trentotto anni Rousseau rappresentava esattamente l’età media. Il nucleo degli enciclopedisti era composto soprattutto di trentenni, a cominciare da Diderot, trentasettenne, e d’Alembert, trentatreenne».

• Dei cinquecento scrittori censiti, il 17% erano nobili (quasi tutti dilettanti o mecenati, con la sola eccezione di Montesquieu), il 12% ecclesiastici (per lo più del basso clero) e ben il 70% apparteneva al terzo stato (16% alti funzionari statali, 10% medici e avvocati, 9% impiegati in uffici amministrativi minori, ecc.), mentre non risultava nessun contadino. Quasi tutti uomini: le donne erano solo il 3% (Madame de Graffigny la più famosa).

• Principio fondamentale della vita letteraria dell’epoca era la continua ricerca di protezioni presso ricchi e potenti, per ottenerne tutele e sinecure che consentissero di vivere decorosamente. Totalmente assente, invece, il mercato letterario. «Quando il bisogno di soldi si faceva disperato gli scrittori ripiegavano in genere su attività marginali, come il contrabbando di libri proibiti o lo spionaggio ai danni dei contrabbandieri per conto della polizia. Non potevano sperare di arricchire con un best-seller perché il monopolio dei privilegi librari da parte degli editori e l’industria delle contraffazioni escludevano ogni possibilità di aspettarsi forti guadagni dalle vendite. Non ricevevano mai diritti d’autore, ma vendevano i manoscritti a forfait o in cambio di un certo numero di esemplari che poi smerciavano un po’ alla volta o davano ai potenziali protettori. Di rado i manoscritti rendevano bene, nonostante il caso famoso delle seimila lire pagate a Rousseau per l’Émile e quello delle 120.000 lire che compensarono Diderot di vent’anni spesi per l’Encyclopédie. […] La prassi comune era quella di puntare a un succès de prestige per attirare un protettore e conquistarsi un posto nell’amministrazione regia o presso una famiglia ricca».

• Gli scrittori squattrinati della metà del Settecento avevano generalmente poca fortuna anche con le donne: tenuti alla larga dalle attrici della Comédie-Française, finivano spesso per vivere con serve, commesse, lavandaie e prostitute, in contesti familiari ben poco felici. Esemplari i casi di Diderot e di Rousseau, che prima del successo vissero a lungo come pennivendoli in cerca di impieghi occasionali: il primo sposò la figlia di una lavandaia, il secondo una rammendatrice semianalfabeta. D’Alembert esortava tutti i philosophes ad abbracciare una vita di castità e povertà.

• All’epoca uno scrittore non godeva di alcuna particolare considerazione sociale, in quanto non si era ancora affermata la figura dell’intellettuale professionista: «poteva essere un gentiluomo, un prete, un avvocato o un lacchè, ma non possedeva una qualité o condition che lo distinguesse da chi scrittore non era». Gli scrittori erano talvolta qualificati come garçons, ragazzi, indipendentemente dall’età: nel censimento Diderot è definito «ragazzo» benché all’epoca avesse già trentasette anni e fosse sposato e padre. «“Garçon” implicava marginalità e serviva a definire l’indefinibile, gli sfuggenti precursori dell’intellettuale moderno che negli archivi della polizia figuravano come gens sans état (gente senza una condizione)».

• Ritratti di alcuni scrittori presenti negli archivi della polizia. Voltaire: «alto, asciutto e l’aria di un satiro», «un’aquila in quanto a spirito», ma «un pessimo soggetto per le sue opinioni». Rousseau: tipo ombroso, ma di «merito eminente» e «grande spirito». Montesquieu: «uomo di uno spirito infinito, tormentato dalla vista debole». D’Alembert: «uomo delizioso, per il carattere e l’ingegno». Diderot: «taglia media, fisionomia abbastanza passabile», «ragazzo pieno di spirito ma estremamente pericoloso», «autore di libri contro la religione e i buoni costumi. È un giovane che fa il bello spirito e si gloria dell’empietà; pericolosissimo; parla con disprezzo dei santi misteri».

• Nell’Encyclopédie, d’Alembert presentava la storia come il trionfo della civiltà, e la civiltà come una conquista degli intellettuali. «In quest’opera non si troveranno i conquistatori che hanno devastato la terra, ma piuttosto i genii immortali che l’hanno illuminata. Né [vi si troverà] una folla di sovrani che avrebbero dovuto essere proscritti dalla storia. Persino i nomi di principi e grandi personaggi non hanno diritto a un posto nell’Encyclopédie, se non in virtù del bene che hanno fatto alla scienza, perché l’Encyclopédie tutto deve alla scienza, e nulla ai titoli di nobiltà. È la storia dell’umano spirito, non quella della vanità del genere umano» (dall’Avertissement al terzo volume dell’Encyclopédie).

• «I balinesi, quando preparano una salma per la sepoltura, si leggono l’un l’altro delle storie, comunissime storie tratte dalle raccolte di fiabe più diffuse tra loro. Le leggono senza fermarsi, ventiquattr’ore al giorno, per due o tre giorni di seguito: non perché abbiano bisogno di distrarsi, ma per il pericolo dei demoni. I demoni possiedono le anime nel delicato periodo immediatamente successivo alla morte, ma le storie li tengono a distanza, […] grazie al fitto intrecciarsi della narrazione e alla cacofonia dei suoni».

• Grandissima fortuna presso i contemporanei del romanzo epistolare La Nouvelle Héloïse (1761) di Jean-Jacques Rousseau, «sei volumi carichi di sentimento in cui non s’incontra un episodio di violenza, una scena erotica o qualcosa che somigli a una trama». Fu forse il maggior successo del Settecento: nonostante l’altissimo numero di edizioni (almeno 70 prima del 1800), la domanda di copie superava l’offerta al punto che i librai noleggiavano il libro a giornata o addirittura a ore (dodici soldi l’ora).

• «Nel Settecento i romanzi erano spesso considerati o moralmente sospetti o una forma inferiore di letteratura, e in genere i romanzieri non indicavano il nome di battesimo sul frontespizio dei loro libri. Nelle attività quotidiane, di fatto, la gente usava di rado il nome di battesimo, con l’eccezione, forse, dei contadini. Qualificandosi come “Jean-Jacques”, Rousseau invitava i suoi lettori a stabilire con lui un rapporto di natura particolare».

• «I lettori “qualsiasi” di ogni ceto sociale si lasciavano travolgere. Piangevano, restavano senza fiato, deliravano, scrutavano a fondo nella propria vita e decidevano di vivere in un modo migliore; poi davano libero sfogo al cuore versando altre lacrime – e scrivendo a Rousseau, che raccolse le loro testimonianze in una grossa filza nella quale i posteri possono curiosare».

• «I suoi lettori volevano credere che Julie, Saint-Preux, Claire e gli altri erano esistiti davvero. In lui vedevano l’amante di Julie, o almeno qualcuno che doveva aver vissuto tutte le passioni di quei personaggi per poterle descrivere in modo così convincente. E perciò volevano scrivergli, unire le loro lettere a quelle del romanzo, assicurargli che avevano provato gli stessi sentimenti nella propria vita, per quanto oscura, e che i loro sentimenti corrispondevano ai suoi… in una parola, che capivano».

• «Senza dubbio La Nouvelle Héloïse è una storia d’amore, ma era amore per la virtù quello che i lettori di Rousseau professavano quando tentavano di spiegare l’emozione che egli aveva destato in loro. […] Jean-Jacques li aveva indotti a guardare dentro di sé, a cercare il significato della loro esistenza. Potevano avere errato come Julie e Saint-Preux, ma in cuor loro avevano sempre amato la virtù e d’ora in poi si sarebbero consacrati ad essa – non alla virtù in astratto, ma a quella varietà domestica che intendevano introdurre nel tessuto della loro vita familiare».

• «Attraverso la pagina stampata lettore e scrittore si univano in una comunione spirituale, assumendo ciascuno la forma ideale immaginata nel testo. Jean-Jacques apriva la sua anima a chi sapeva leggerlo, e i suoi lettori sentivano le proprie anime innalzate sopra le imperfezioni della loro esistenza “qualsiasi”. Stabilito il contatto con “l’Ami Jean-Jacques”, si sentivano capaci di rientrare in possesso della propria vita, come sposi, genitori e cittadini».

Notizie tratte da: R. Darnton, Il grande massacro dei gatti, Adelphi 20132, € 28.