Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore 3/1/2014, 3 gennaio 2014
QUELLA MARCIA LUNGA UN SECOLO
È stata una lunga marcia quella della Fiat negli Stati Uniti, coronata adesso dalla totale conquista della Chrysler. In America Giovanni Agnelli era andato, la prima volta, nell’aprile 1906, per inaugurare a Broadway un’agenzia commerciale della Casa torinese.
Ma soprattutto per osservare, durante una ricognizione alla Ford, i nuovi procedimenti di lavorazione introdotti da Charles Sorensen. E a Detroit c’era tornato tre anni dopo per vedere all’opera la prima linea di montaggio, ripromettendosi da allora di fare come Henry Ford, con cui aveva stabilito personali rapporti di amicizia. C’erano d’altronde alcuni tratti in comune fra loro essendo figli di agricoltori e avendo esordito entrambi con la costruzione di un quadriciclo a motore.
Negli Stati Uniti la Fiat aveva creato successivamente, durante la Grande Guerra, un’officina a Poughkeepsie, nei pressi di New York. Ma il progetto con la Nash Motor Company di Charles Nash (un self-made man con una buona esperienza alla General Motors) per costruire vetture di lusso, nel 1922 venne relegato in un cassetto. D’altronde, la Fiat aveva intanto concentrato ogni sua risorsa nella riorganizzazione della propria fabbrica torinese, su modello fordista, conclusasi nel 1923 con l’attivazione dello stabilimento del Lingotto, il più grande a quel tempo in Europa, e una catena di montaggio a struttura verticale in cui vennero tradotti i precetti di standardizzazione della produzione elaborati da Frederick Taylor. La Fiat ebbe così modo di accrescere le sue esportazioni, essenziali per le proprie fortune, dato che in Italia la domanda era ancora esigua. Ad assecondare la sua ascesa fu anche un cospicuo prestito della Banca Morgan, fiduciosa nelle potenzialità della Fiat, che aveva iniziato a costruire pure motori navali veloci a iniezione diretta in collaborazione con l’americana Nordberg di Milwaukee.
Ad accreditare il senatore Agnelli negli Stati Uniti era stata successivamente la sua proposta, diffusa nel giugno 1932 dalla catena giornalistica dell’United Press, di ridurre le ore di lavoro a parità di salario per riassorbire la disoccupazione e rilanciare la domanda nelle spire della Grande crisi del ’29. E se la Fiat era riuscita ad attutire le pesanti ripercussioni della recessione grazie a un accordo con la Russia di Stalin per la realizzazione a Mosca da parte della Riv di un grande stabilimento di cuscinetti a sfera, era stato poi il lancio nel 1936 della «Topolino», la più piccola utilitaria del mondo, a indurre i dirigenti della Ford e della General Motors a valutare l’ipotesi di un «gentlemen’s agreement». In pratica, la Casa torinese avrebbe potuto contare su un certo spazio di mercato negli USA per le sue vetture di piccola cilindrata e a basso consumo di carburante; in cambio, le sue agenzie commerciali in Europa avrebbero appoggiato la collocazione di alcuni modelli di grande cilindrata dei due colossi di Detroit. Senonché le sanzioni della Società delle Nazioni contro l’Italia per la guerra d’Etiopia mandarono a monte questo progetto e così pure quello di un accordo fra la Società Italiana Anonima Petroli, controllata dalla Fiat, e la Standard Oil.
Tutto ciò non impedì ad Agnelli di fare tesoro della consulenza di tecnici americani nella costruzione del grandioso stabilimento di Mirafiori, a struttura orizzontale, inaugurato nel maggio 1939. Inoltre, durante la seconda guerra mondiale, alcuni suoi dirigenti di matrici ebraiche, dislocati negli Stati Uniti dopo le leggi razziali del 1938, mantennero in via riservata, sotto le insegne di un’European American Trade Development Corporation, rapporti con esponenti di varie imprese. E queste relazioni, insieme a quelle mai interrottesi del tutto con la Banca Morgan, risultarono preziose per la ripresa della Fiat di Valletta dopo il 1945.
Sarebbero poi passati quarant’anni, con nel mezzo la motorizzazione di massa in Italia e lo storico accordo del 1966 con l’Unione Sovietica per l’impianto della fabbrica automobilistica di Togliattigrad, prima che tornasse a delinearsi nel 1985, con l’Avvocato ormai di casa da un pezzo negli Stati Uniti, la prospettiva di un accordo fra Torino e Detroit. In base alla coproduzione di alcune componenti, poi alla realizzazione di un nuovo modello di autovettura, e infine, alla fusione fra la Fiat Auto e la Ford Europe. Questa costituenda società sarebbe stata in grado di coprire più d’un quarto del mercato europeo. Senonché, mentre dalla Ford si era disposti ad affidarne la direzione operativa a Vittorio Ghidella, non s’intendeva lasciarne il controllo azionario alla Fiat e neppure a sottoscrivere una soluzione di compromesso a condizioni paritarie con un 2% in mano alla banca d’affari Lazard.
S’infranse così il sogno dell’Avvocato di poter divenire un giorno o l’altro un importante azionista della stessa Ford americana. E all’inizio del nuovo secolo toccò a lui negoziare, in un frangente estremamente difficile per la Fiat, un accordo d’emergenza con la General Motors che parve l’epilogo per l’autonomia dell’ammiraglia del capitalismo italiano, dopo cent’anni dalla sua nascita. Fu poi suo fratello Umberto a disdirlo e a designare, proprio alla vigilia della sua scomparsa nel 2004, Sergio Marchionne alla guida della Casa torinese con a fianco John Elkann.
Da quando nel 2009 la Fiat entrò con un 20 per cento in Chrysler, ci sono voluti cinque anni per giungere a concludere nel migliore dei modi, grazie a una sagace strategia sia finanziaria che produttiva, la sua lunga marcia negli Stati Uniti iniziata quasi un secolo fa. E il felice esito di questo percorso risulta oggi tanto più significativo, e augurale per un rilancio del sistema Italia, in quanto coincide con l’avvento a sindaco di New York di Bill de Blasio, un altro figlio di nostri emigranti a essere eletto alla massima carica della «Grande Mela», dopo Fiorello La Guardia e Rudolph Giuliani.