Aldo Grasso, Corriere della Sera 3/1/2014, 3 gennaio 2014
60 ANNI DI TV LA RAI NON È PIÙ MAESTRA PER TUTTI VA RINNOVATA SENZA NOSTALGIE
La Rai, Radiotelevisione italiana, compie oggi 60 anni, avendo inaugurato ufficialmente le trasmissioni il 3 gennaio 1954. Sessanta sono tanti, tantissimi se rapportati al calendario della tecnologia. In poco meno di un decennio, grazie ai media digitali, a Internet, la tv ha subito un cambiamento radicale: il passaggio dal tradizionale segnale analogico a quello digitale, per esempio, ha generato nuove dinamiche di fruizione e l’emersione di nuovi immaginari sospesi, come sempre accade, tra l’euforia della scoperta «magica» e il terrore di possibili effetti negativi.
Ma per oltre mezzo secolo, la tv è stata il medium egemone del ‘900 e ha svolto un preciso ruolo sociale, alimentando un’esperienza tanto diffusa quanto condivisa per gli spettatori, riassumibile nella semplice espressione: «guardare la tv». Per molto tempo, dunque, guardare la tv è stato come guardare un nuovo mondo, una scoperta di inestimabile valore.
L’immagine dello spettatore
Lo scenario attuale di trasformazione e convergenza tecnologica comporta anche una mutazione nell’identità di chi guarda, lo coinvolge fisicamente, anche se l’immagine dello spettatore della «multitelevisione» appare ancora sfuggente perché il «nuovo» cerca di rendersi più accettabile assumendo alcune forme tipiche del «vecchio», e viceversa queste ultime reagiscono alla competizione, ricavandosi nicchie di sopravvivenza.
Se vogliamo capire cosa rappresentino 60 anni di tv, la prima cosa da fare è smetterla con il rimpianto. Basta con la nostalgia del monoscopio, del maestro Manzi, delle annunciatrici, di Calimero, degli sceneggiati in bianco e nero. Quel che è stato è stato. L’archeologia della tv deve solo farci capire le cose essenziali senza mai tramutarsi in uno stato d’animo malinconico.
Due sono le funzioni fondamentali ascrivibili alla tv delle origini: da una parte, costruire la «visibilità degli italiani», nella tradizionale funzione di rappresentazione e autorappresentazione già assolta precedentemente dal cinema (si pensi al Neorealismo); dall’altra, sincronizzare i ritmi di una comunità e renderla perciò più consapevole di se stessa, in grado di riconoscersi e immaginarsi come un insieme, come un «noi» che affronta un destino comune (quello della definitiva ricostruzione, del boom economico, dell’avvento della società dei consumi, opportunamente mediata dalla spettacolarità rassicurante di Carosello).
Nessuno storico può scrivere la storia degli ultimi 60 anni del nostro Paese senza l’aiuto della tv, del suo patrimonio simbolico, delle ritualità radicate in una «comunità immaginata»: da «Lascia o raddoppia?» al Festival di Sanremo, dallo sport a tutti i grandi eventi mediatici.
Proprio per questo, rispetto alla propria audience, si possono dividere i primi 60 anni della Rai, e più in generale della tv generalista, in tre grandi periodi: quello in cui la Rai era più avanti del suo pubblico (l’analfabetismo riguardava metà della popolazione italiana), quello in cui l’offerta televisiva era in sincronia con il «sapere» del pubblico, quello in cui, stiamo parlando dell’attuale, la tv generalista si rivolge principalmente a un pubblico ancora molto vasto ma «residuale» (per età, istruzione e censo) rispetto ai cambiamenti del Paese. Come in tutte le periodizzazioni, i rischi delle sintesi sono presenti anche qui. Non solo: i media hanno un andamento ciclico e i loro rapporti sono determinati dalle fasi del ciclo; ora, per esempio, l’egemonia sta passando a quel vasto sistema dei media convergenti di cui il computer è il terminale più rappresentativo.
Gli esordi e la borghesia
Quando in Italia è nata, la tv era in mano a una élite, prima di stampo liberale e poi cattolico. Era una tv che rispecchiava lo spirito di una borghesia medio-alta e si rivolgeva a quella stessa borghesia, la sola in grado di acquistare il costoso apparecchio (di lì a pochissimo, però, lo strepitoso successo di «Lascia o raddoppia?» negli spazi pubblici, nei bar, negli oratori, nei cinema avrebbe fatto capire come la tv fosse lo strumento principe della cultura popolare). Per intanto, la fascinazione del mezzo attirava le menti migliori e dava inizio a quella fase aurorale in cui il nuovo strumento è in grado di stimolare nuovi immaginari. Tre esempi per spiegare meglio la tesi. Nel 1957 Mario Soldati realizza una formidabile inchiesta, «Viaggio nella Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini»; l’aspetto curioso è che Soldati s’interroga sulla cultura enogastronomica dell’Italia in un momento in cui, per buona parte degli italiani, l’idea del cibo è legata ancora alla mera sopravvivenza, alla fame patita durante la guerra e nel primo dopoguerra. Più interessante ancora l’inchiesta del 1959 di Salvi e Zatterin «La donna che lavora», indagine sull’evoluzione del lavoro femminile in Italia: allora pareva rivoluzionaria ma era perfettamente in linea con le direttive ministeriali (come se oggi Milena Gabanelli facesse un’inchiesta delle sue, sponsorizzata però da qualche ministero). Nel 1961 Sacerdote e Falqui danno vita allo show «Studio Uno», di rara eleganza espressiva, quando il varietà era un genere pressoché sconosciuto alla quasi totalità degli spettatori. Altri esempi si potrebbero fare con i «romanzi sceneggiati» (il tentativo di portare i grandi libri nelle case degli italiani) o con «Il processo alla tappa». Servirebbero solo a rafforzare la tesi: la tv era più avanti del suo pubblico. I dirigenti dell’epoca vengono spesso ricordati circonfusi di un’aura di grande santità e professionalità. Santi non erano (basti ricordare come i telegiornali d’allora non avessero nulla da spartire con l’indipendenza dell’informazione), ma hanno avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, quando la tv stessa guidava chi voleva lasciarsi guidare e trascinava i nolenti.
La seconda fase
Il secondo periodo può partire simbolicamente dal 1967, anno di messa in onda dei «Promessi sposi» (la Rai, ormai pienamente consapevole del proprio ruolo centrale nell’universo cultural-spettacolare nazionale, celebra con Manzoni il senso della sua missione educativa) e finire con «Blob», un montaggio di citazioni prese a prestito da altri programmi, un espediente critico per analizzare la tv, il trionfo dell’autoreferenzialità (la tv che parla di tv). In mezzo ci sono programmi che tutti vedevano, di cui tutti parlavano, da cui tutti erano influenzati, compresi gli altri media: «90° minuto», «Canzonissima», «Bontà loro», «Portobello», «Quelli della notte», «Quark», «Domenica in», «Mixer», «Samarcanda», «La Piovra» (ma l’apporto viene anche dalle tv commerciali, come nel caso di «Drive in»). Si potrebbero citare tanti altri programmi, ma l’importante è ribadire il concetto: la Rai assorbiva e insieme dettava i tempi di una nazione.
La tv contava su vantaggi consistenti: sia per la sua capacità di articolare il pubblico nel privato, sia ovviamente per la sua accessibilità e popolarità, per quella sua caratteristica complementare, integrativa (contrapposta alla settorializzazione della cultura a stampa), sia, infine, per la sua specificità di «medium generalista di flusso» che tendeva a sincronizzare i ritmi di una comunità.
Il periodo che viviamo
Il terzo periodo (massì, facciamolo partire dal «Grande Fratello», anche se la Rai non c’entra) è quello che stiamo vivendo. Di fronte alle sfide lanciate dalle tecnologie digitali, il Servizio pubblico ha reagito come ha potuto, spesso prigioniero della politica. La Rai raggiunge una platea potenziale che copre l’intera popolazione, perché, molto banalmente, c’è almeno un televisore (e spesso più d’uno) per ogni famiglia. Il vero problema è che solo una parte — una minoranza, e non certo la maggioranza — della popolazione vive la tv come unica interfaccia col vasto mondo. Si tratta, in sostanza, di spicchi della popolazione doppiamente svantaggiati: per livelli d’istruzione (medio-bassi) e fasce d’età (avanzate, le più consistenti in Europa); ma soprattutto per il tenore dei consumi culturali, che non vanno al di là della tv generalista. Sta di fatto che i giovani non guardano più la tv (se non per frammenti, su YouTube) e chi può si abbona alla Pay-tv. A parte gli eventi mediatici (le partite della Nazionale, in primis), i grandi successi di audience sono rappresentati ormai da varietà e fiction fortemente nostalgici, come se la Rai avesse costantemente lo sguardo rivolto al passato. E i talk show hanno ridotto la politica a mera chiacchiera. Insomma, quella che pomposamente è stata definita «la più grande industria culturale» del paese rischia ora la marginalità.
La ricerca del nuovo
È vero che la Rai sta cercando di adeguarsi al nuovo, si è espansa al di fuori del proprio guscio (ha moltiplicato i suoi canali sul digitale terrestre), ha messo in atto un movimento di trasformazione, ma il suo «core business» e la sua missione restano ancora il modello generalista. La Rai è vittima di molti fattori: l’ingerenza della politica, soprattutto, il mancato ripensamento della nozione di Servizio pubblico, il condizionamento della concorrenza (è stata una scelta giusta quella del digitale terrestre? Non era meglio puntare al cavo o al satellite?), la mancanza di una rigida policy aziendale (ognuno fa quello che vuole, con la complicità dei giudici del lavoro), l’«entropia della dirigenza» (se alla guida di un sistema così complesso vengono preferite non le persone più capaci, come da curriculum, ma soltanto quelle che hanno giurato fedeltà a un partito, finisce che il numero di incapaci aumenta).
Il 60esimo compleanno della Rai dovrebbe perciò servire a riservare più spazio ai ripensamenti che alle celebrazioni, più attenzione ai prodotti che ai dibattiti, altrimenti il declino sarà inevitabile. E la perdita, purtroppo, irrimediabile.