Mario Giordano, Libero 3/1/2014, 3 gennaio 2014
IL RAGAZZO «SANTO» E L’«ASSASSINO»: DUE VITE STRAVOLTE DAL COMA IN CASA
Giovanni ha vissuto con il coma in casa per 25 anni. Gianfranco non è riuscito a sopportare due mesi di angoscia. Le loro strade si sono incrociate ieri, in uno di quegli strani destini con cui la cronaca si diverte a scompigliare le nostre vite. Giovanni Ederle, 26 anni, è un ragazzo di Verona: ha celebrato il funerale di suo padre, che era in stato vegetativo dal 1989. «Vivere con lui? Un’esperienza impagabile », ha commentato. Gianfranco Bocciarelli, 76 anni, è un pensionato di Milano: è entrato con una pistola in una clinica di Paderno Dugnano dove la moglie (...) era ricoverata da novembre in seguito a un’ischemia. L’ha uccisa e s’è ucciso. Non ha lasciato detto nemmeno una parola.
Due casi così diversi eppure così uguali, due reazioni così opposte eppure in fondo entrambe umane. A Verona resta un racconto pieno di aneddoti, particolari, dolci ricordi e parole buone; a Paderno Dugnano solo un cupo silenzio e l’eco lontana dei proiettili. A Verona la sofferenza è finita nella serenità dei canti in chiesa, a Paderno Dugnano è finita in due colpi di pistola. Giovanni pensa ancora a suo padre, lo vede «correre finalmente libero con i suoi cavalli »; Gianfranco invece non pensa più nulla perché per lui non aveva senso pensare, senza poter discutere i pensieri con la moglie. Era un mite gioielliere, un buon marito, un padre esemplare. È diventato un assassino.
Già immaginiamo che, sull’onda di queste notizie, adesso ricomincerà l’eterno dibattito sull’eutanasia, quanto sia giusta oppure no, staccare la spina o non staccarla, cattolici contro resto del mondo, come fosse un eterno derby da giocarsi sui dolori altrui. Ma al di là dei ritornelli noti, e già mille volte suonati, oggi colpisce e sorprende soprattutto questo strano intreccio, questa opposizione di comportamenti così lontani, quasi a voler rappresentare plasticamente l’arco delle possibili reazioni umane. Come a dire, che per quanto l’uomo sia incatenato al destino, ha sempre la possibilità di reagire. Può fare o dire, distruggere o costruire, può agire in mille diversi modi, può usare il dolore per gustare meglio la vita o per annientarla, può circondarlo di parole meravigliose o soltanto di polvere da sparo. Può aggrapparsi alla speranza oppure sprofondare nella disperazione, può intravvedere una luce o chiudersi nel buio eterno.
È così diversa e lontana, in effetti, la reazione di Giovanni e Gianfranco, che sembra voler dire che tutto è possibile di fronte a una tragedia simile: uno usa parole da santo, l’altro gesti da assassino. Uno non ha mai parlato con il padre, eppure è riuscito a dirgli tante cose. L’altro ha parlato per 50 anni con la moglie e poi non ha sopportato che rimanesse d’improv - viso senza parole. Uno ha coltivato per 25 anni l’amore per un corpo inanimato, l’al - tro non è riuscito a coltivarlo neppure due mesi, pur avendo condiviso con quel corpo l’intera vita. Uno è il buon esempio, l’altro il cattivo, uno è quello che ce l’ha fatta, l’al - tro è quello che s’è arreso, uno è stato più forte del dolore, l’altro è stato battuto.
Eppure, a ben vedere, queste due persone che oggi s’in crociano agli opposti del destino e nelle vicinanze della cronaca, non sono mica così diverse, non sono mica così lontane. In fondo sono figlie entrambe dello stesso strazio. La malattia che ti inchioda al letto, quella che ti tocca il cervello e ti toglie la parola, lo sanno tutti quelli che se la sono vista piombare in famiglia, può essere un’esperienza ancor più devastante della morte perché non ha una fine scontata, è una finestra aperta sul nulla, è un abisso che ti inghiotte. E ti mette davanti alle tue debolezze, ancor più di quanto farebbe un funerale. Perché, si sa, che il funerale finisce, l’abisso della malattia no. Può durare due mesi o un’ora, una settimana o 25 anni, e tu non sai se hai la forza per affrontare il minuto che viene subito dopo. E quello che verrà dopo ancora.
Chi te la dà quella forza? Come si riesce a dare un senso a quella lacerazione continua e infinita, a quel ripetersi del dolore istante dopo istante, a quella tortura senza fine, quel tormento che non possiamo nemmeno ripiegare un po’ nell’album dei ricordi? È il vero mistero della vita. Ed è il filo sottile che unisce Verona a Paderno Dugnano, il ragazzo santo e il gioielliere assassino, due storie così lontane eppure così vicine, due storie che per una volta non meritano il nostro dibattito. Solo il nostro rispetto. Giovanni continuerà a lavorare con la sorella nell’agriturismo, fra vini e cavalli, attaccato alla terra che il padre amava. Gianfranco non continuerà nulla perché aveva deciso che non poteva continuare. Tutti dicono che lui e sua moglie fossero una coppia molto unita.