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 2014  gennaio 03 Venerdì calendario

IL VERMOUTH CHE HA FATTO LA STORIA DELL’APERITIVO

Ci fu un tempo in cui il nome Martini non evocava il Negroni sbagliato (copyright riconosciuto al milanese bar Basso) oppure il celeberrimo cocktail dove il Martini vero e proprio viene usato solo per insaporire ghiaccio e bicchiere, e buttato poi via (tutto o quasi a seconda del barman) per lasciar posto al gin. Ci fu un tempo, poco meno di 150 anni fa, in cui Martini significava spedizioni avventurose, ansiose ordinazioni, viaggi travagliati per far arrivare ai clienti quel che era, all’epoca, una china, un vermouth… liquori in innumerevoli versioni.
«Il signor Giuseppe Consonno vi prega di spedire al suo indirizzo di Teheran 3 casse Fernet… Dovendo viaggiare circa due mesi su cammelli, è necessario che le casse siano robuste, le bottiglie messe in piccole cassette con paglia e poi queste messe di nuovo con paglia nella cassa grande», si legge in una lettera datata Milano 9 luglio 1877 e conservata oggi nel museo aziendale. Dall’Oriente al West, ancora abbastanza selvaggio: «Il Paese… ha buone apparenze pel mio commercio, essendoci dieci o dodici miniere di carbone frequentate la maggior parte da italiani, quasi tutti piemontesi». Siamo nel 1885, e da Williamsburg nel Colorado tale Clotilde Varetti chiede alla ditta una cassa di vermouth per il saloon che possiede il marito.
La ditta è appena nata e i suoi prodotti raggiungono già gli angoli più sperduti del mondo. Martini, quest’anno, ha appena festeggiato il 150° compleanno ufficiale. L’anagrafe, va precisato, è opinabile. Nico Orengo, in un racconto-prefazione al volume per celebrare l’anniversario, Mondo Martini, Sorì edizioni, evoca una data anteriore, il 1847: «Quando quattro signori che si chiamavano Michel, Re, Agnelli e Baudino entrano in una litografia torinese molto rinomata, la Doyen, con una bottiglia di vino vermouth da “vestire”. Quell’etichetta non si è mai trovata, forse neppure l’hanno guardata i nuovi proprietari di quella formula segreta per fare il vino aromatizzato che sono Alessandro Martini, Teofilo Sola e C.ia». Ovvero due dipendenti, un contabile e un venditore, che nel giro di pochi anni subentrano ai primi quattro e, nel 1863, registrano la società a loro nome. Come terzo socio, arriva presto Luigi Rossi, liquorista, vinificatore ed erborista che ha una bottega a Torino. È lui che, nel 1864, individua in Pessione la località dove tirar su uno stabilimento per incrementare la produzione. Un paesotto di poche case e qualche cascina, a sud di Chieri, ma anche una scelta strategica verso future espansioni: nelle colline del Monferrato, produttrici di vini, sulla linea ferroviaria che va a Genova, porta sui mercati del mondo, e anche vicino alle coltivazioni di erbe officinali di Pancalieri.

Un’etichetta molto torinese. I primi quattro fondatori, stando ai registri conservati nell’Archivio di Stato di Torino, avevano costituito «una distilleria nazionale di spirito di vino all’uso di Francia». All’epoca, il vermouth francese era più o meno il dry odierno, mentre tipicamente torinese era quello rosso. Rossi mette a punto una formula particolare (la storia aziendale vuole che sia ancora segreta, custodita nel caveau di una banca a Zurigo) unendo vino fiore (cioè spremitura gentile dei grappoli) e una quarantina di specie botaniche. Fra queste, achillea, genziana, artemisia, viole sono piante locali, giaggiolo, menta, maggiorana, timo, alloro e rosmarino vengono dal Mediterraneo, aloe e coriandolo dall’Africa, china e quassio dall’America, cannella, chiodi di garofano e cardamomo dall’Asia.
È il primo Martini. Sobria l’etichetta delle bottiglie: un toro rampante in campo azzurro, simbolo della città di Torino, nomi dei proprietari, indirizzo della bottega e dello stabilimento. Non si beve solo vermouth con questa sigla. Oggi, nel museo si trovano curiose bottiglie di gin, di whisky e anche di vodka targate Martini. Come si scopre la prova dell’accuratezza a mantenere il segreto delle formule usate. Sta in una bilancia: ha una faccia “cieca”, in modo che da quella parte non si possa sapere il rispettivo peso delle varie erbe che venivano impiegate.
Torniamo alle corrispondenze. Si spazia da Shanghai a Bogotá. Da lì, parte un ordine corredato di accurati consigli su come foderare di zinco la spedizione: «… è indispensabile che l’imballaggio sia fatto come sopra descrittovi, in caso contrario i fusti potrebbero arrivare vuoti a motivo che havvi sul fiume della Magdalena degli insetti che forano il legno…». È il 9 aprile 1887, in quell’anno l’azienda apre a Torino, in corso Vittorio Emanuele II, un’imponente sede commerciale. La sanzione del rapporto privilegiato col capoluogo piemontese arriva pochi anni dopo, agli inizi del Novecento, quando a capo della Martini arriva Teofilo, il figlio di Luigi Rossi. Sarà anche sindaco di Torino (e poi ministro) e al suo nome è legata l’Esposizione internazionale dell’industria e del lavoro che trasforma la città nel 1911 (e che meriterà a Teofilo anche il titolo di Conte di Montelera attribuitogli dal re).

Gli indimenticabili Calindri & Volpi. Si è parlato qui di Martini nel versante meno glamour, trascurando lati di assoluta importanza. Il più evidente è quello della comunicazione, che inevitabilmente merita almeno un cenno succinto. Sia quella depositata nella propaganda grafica, dove l’azienda piemontese può vantare una cartellonistica che riecheggia gran parte dei motivi artistici nel “secolo breve”, con alcuni dei manifesti più celebri, quelli – oggi ricercatissimi – a evocare irresistibilmente la Belle Epoque, firmati da Dudovich o da Codognato, fino a quelli recenti, creati da uno dei profeti dell’avanguardia fine Novecento, Andy Warhol, sotto forma di inserzioni pubblicitarie per alcuni settimanali americani, senza firma, a cavallo degli Anni Sessanta: che la mano fosse la sua è stato scoperto per caso, molto tempo dopo. Sia quella passata per gli schermi televisivi. Con una galleria di spot che parte alla grande quando ancora questi si chiamavano Caroselli. Si va da «Dura minga, dura no», con Ernesto Calindri e Franco Volpi, fino a George Clooney – «No Martini? No party» – passando per il Quartetto Cetra, Lea Massari, Ugo Tognazzi e Paolo Villaggio, nonché Sharon Stone e Charlize Theron (con una sensazionale inquadratura da dietro…). Però, nella storia del marchio, importanti sono anche altri aspetti. A partire dall’attenzione per chi ci lavorava e ci lavora. Per dire, durante la Seconda guerra mondiale la ditta mantenne la piena occupazione dei dipendenti.
Non mancarono poi i momenti critici dal punto di vista economico, ma la ripresa arrivò poco dopo la fine del conflitto e nel 1950 iniziò la grandiosa stagione delle Terrazze Martini che, nel momento di massimo fulgore, arrivarono a essere otto nelle capitali del mondo.
Dal 1993 il marchio è entrato a far parte del gruppo Bacardi, ma le bottiglie di Martini continuano a uscire dallo stabilimento di Pessione, dove la parte antica – coi mattoni rossi e le ciminiere – è stata integrata da strutture modernissime e funzionali. Sotto la villa padronale, nelle cantine, è stato allestito il museo: non è solo storia aziendale con un’importante raccolta di documenti, bozzetti originali delle affiche e bottiglie rare, a prologo c’è anche una ricchissima collezione di manufatti attinenti la cultura del bere, dai tempi degli etruschi in poi. Una vera e propria galleria sulla storia dell’enologia.
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