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 2014  gennaio 03 Venerdì calendario

A SPASSO TRA LE ANTICHE TOMBE

Le iscrizioni. Talvolta sono testi brevissimi e straordinariamente profondi. «Hic situs finita luce», solo quattro parole lette su una lapide di Ostia. Parole traducibili e tradotte in «Qui riposo, spento l’ultimo raggio». C’è un senso stupendo di voglia di vivere, di afferrare fino alla fine l’ultima luce, di non lasciarsi inghiottire dal buio di una notte senza più albe. E quante volte questi concetti torneranno nelle credenze dell’uomo di ogni tempo? Quale migliore augurio per un uomo è quello di tornare a vedere sempre la luce del giorno dopo? La presenza della luce è una costante che si traduce praticamente nel portare sulle tombe i fiori, simbolo della luce per eccellenza, allora come oggi. Fiori come surrogato della luce del sole da catturare fino all’ultimo raggio: «Hic situs finita luce». Questa è l’ansia del mondo di chi non è più. L’ansia di bere, di dissetarsi di luce, di appartenere alla luce, nel momento in cui la luce non appartiene più ai tuoi occhi mortali. E allora le case di costoro, le case dei morti sono in piena luce, circondate dal verde, colorate dai fiori (non solo simbolo della luce, ma anche della possibilità di nascere ancora). Ed è fantastico passeggiare fra quelle case antiche, fra i mausolei di chi è transitato su questa terra secoli orsono. Se si riesce a sopravvivere all’incuria moderna della manutenzione scarsa, la necropoli dell’Isola Sacra, le tombe della via Latina a Roma, come qualsiasi altra necropoli antica (vuoi etrusca, vuoi romana, vuoi altomedievale) racconta (con la morte) le storie della vita dell’uomo.

Testimonianze perenni. Fra quelle mura antiche riaffiorano quelle storie, quasi sussurrate, raccontate dalle iscrizioni. Riaffiorano vicende della vita quotidiana di ieri. Apparentemente piccole, ma a ben vedere grandissime. Tra la luce di quell’erba si nascondono ancora oggi (dopo millenni) le ansie, le angosce, le felicità i desideri, le debolezze, dell’uomo di ieri, dannatamente simili alle caratteristiche dell’uomo di oggi. Fra le debolezze, quella di non farsi dimenticare, quella di lasciare un ricordo, un ricordo di sé. Qualunque sia, ma pur sempre un ricordo: parole abbandonate alla pietra, mattoni e intonaco dei mausolei segnalibri esistenziali e figli di una esistenza volata via, abbandonata alla terra, con il rischio di essere dimenticata dagli uomini restati su quella terra. E, ancora una volta, la parola scritta è deposito forte del divenire, ultimo residuo e voce silenziosa dell’esistenza. Testimone perenne dell’esistente. Certe pietre, restituendo le emozioni assorbite, sono in grado di raccontare. Là, da millenni, ricordano, restituiscono dolori, preghiere, tristezze, consolazioni anche se scolpite da scalpellini ignoranti, attenti a copiare bene i segni per poi passare a riscuotere il compenso della giornata. Ma quelle pietre sono state circondate da sentimenti e continuano a comunicarne la sostanza ancora oggi, dopo millenni. «Son fuggito, sono fuori. Speranza, Fortuna, vi saluto. Non ho più niente da spartire con voi. Prendetevi gioco di qualcun altro», lascia scritto Lucio Annio Ottavio Valeriano, sepolto in un sarcofago della via Appia in Roma, cui fanno eco quelle di uno schiavo, Quinto Ammero: «La terra tiene il corpo, un sasso il nome, l’anima l’aere. Sarebbe stato meglio non aver toccato mai il suolo». Risentito Lucio Annio, rassegnato Quinto Ammero. E rassegnato a ragion veduta: in fin dei conti cosa rimane? Una tomba, un’iscrizione e l’anima nell’aria. E se qualcuno è ancora incredulo, troverà una risposta epigrafica in un altro sarcofago della via Appia: «Leggi e credi. È ciò che vedi. È così. Non può essere altrimenti». In latino è ancor più fulminante: «Respice et crede. / Hoc est, sic est, aliut fieri non licet». Illusione e disillusione scolpite da sempre nei pensieri dei vivi, ancor prima di trovarne la sostanza scolpita sulla pietra. I morti così continuano a parlare ai vivi in un dialogo sceneggiato pronto a diventare a tratti minatorio: «Ehi, tu che passi, vieni qui. Riposa un istante. Scuoti il capo, non vuoi? Eppure qui dovrai tornare». Parla così direttamente dall’al di là Marco Vitellio Teodoro vissuto e morto a Capena. E, da morto, Marco VitelIio Teodoro spera di approfittare della stanchezza del passeggero per poter essere ricordato: il tono spinge al sorriso, ma altri testi e di tenore diverso ricordano ai passanti l’ineluttabilità della morte. Con le iscrizioni i morti continuano a parlare con i vivi in una sceneggiatura surreale, costruita su monologhi e dialoghi non sempre tranquilli. La tomba è l’ultima casa, la tomba è un bene materiale, la tomba è un privilegio.

Nel momento del bisogno. Avere una sepoltura degna era ambizione di tutti e chi non se la poteva permettere ricorreva al saccheggio delle sepolture altrui. «Non toccate, mortali. Rispettate gli dèi Mani», ammonisce severa e imperativa una iscrizione di Roma. Sembra di vedere il fantasma del morto seduto sul sarcofago sibilare duro in viso: «Ne tangito, o mortalis, reverere Manes deos».
E questo richiamo agli dei Mani è continuo e costante nelle iscrizioni sepolcrali del mondo antico. Gli dei Mani presiedevano alla morte e al mondo funerario in senso lato: alla protezione dei Mani era affidata anche la tomba, nella sua integrità. Per sorreggere le lastre, di marmo, di bronzo o di altro, alle pareti della tomba allora come oggi venivano utilizzati i chiodi. E strappare questi chiodi era la prima operazione fatta da chi voleva profanare per saccheggiare la tomba e riutilizzare i materiali. Un’altra iscrizione di Roma è dichiaratamente esplicita, anche in latino: «Quicunque hinc clavos exemerit in oculos sibi figat». Chiaro, credo: «Chiunque strapperà di qui i chiodi, se li ficchi negli occhi». E come in tutte le cose della vita, anche per la morte si inizia pregando e invocando. Poi, non ottenendo alcunché, si passa alle minacce per finire alle maledizioni. «Chiunque solleverà questa pietra o la farà rimuovere, muoia l’ultimo dei suoi», tuona un’altra epigrafe di Roma, aggiungendo: «Chiunque solleverà questa pietra o la danneggerà, muoia l’ultimo dei suoi». E, se nemmeno le maledizioni fanno effetto, si torna alla pietà: «Fossore, attento a non scavare: l’occhio di Dio è grande, bada! E pure tu hai dei figli». È Aurelio Niceta, padre, costretto a seppellire sua figlia Aurelia: una bambina. Rileggendo, ecco la pietra restituire tutte le emozioni assorbite. Aurelio ha sofferto uno dei dolori più grandi del vivere: quello di veder morire i figli. Piangendo, ha accompagnato al cimitero Aurelia, la sua bambina. La deve aver vista sistemare nella tomba, chiusa per l’ultima volta con una lastra, dei chiodi, la calce. Ma Aurelio sapeva del mercato clandestino delle tombe, gestito dai fossori, i necrofori pronti a guadagnare sulle disgrazie altrui. Questi becchini, come avvoltoi, erano pronti a speculare sul dolore rivendendo tombe già occupate, riutilizzando le lastre sul loro lato b non ancora inciso, disperdendo altrove i resti umani dissepolti. Era successo, succedeva e succederà anche dopo. E allora Aurelio prega e sente il bisogno di ricordare l’affetto dei figli all’eventuale fossore sacrilego in un latino colloquiale: siamo oramai nel IV secolo, lontani dal latino di Cicerone. «Fossor, vide ne fodias. Deus magnu oclu abet; vide. Et tu filios abes». Il dio dal magnu oclu (magnum oculum, il grande occhio) è il dio per eccellenza: il Dio dei cristiani. Allora come oggi, accanto alle profanazioni, accanto ai furti, accanto alla compravendita illecita dei sepolcri, esistevano anche atti vandalici puri e semplici. «Qui hic mixerit aut cacarit habeat deos Superos et Inferos iratos», e il testo mi sembra sufficientemente chiaro e si riferisce alla consuetudine di fare i bisogni corporali presso le tombe. Cosa non gradita, ovviamente. Al punto da chiedere l’intervento diretto degli dei Superi e Inferi: contemporaneamente e nel momento del bisogno. Sono straordinari i dialoghi immaginati fra defunto e viandante, fra tomba e viandante, fra tomba, viandante e defunto. Si tratta di piccole sceneggiature che, oltre restituirci gli atteggiamenti mentali dell’uomo antico nei confronti della morte, ci portano direttamente a contatto con le consuetudini di una volta. Ci sembra di partecipare in prima persona, ci sembra di rivedere materializzati quei personaggi, di riascoltare le loro voci, di ripercorrere le strade antiche come i viaggiatori di un tempo, leggendo sulla pietra le parole di chi non voleva farsi dimenticare. In una iscrizione greca il viandante per primo si rivolge al morto: «Chi ti ha allevato?», chiede il passeggero di fronte alla tomba. «Era Kilix l’ateniese», è la risposta da sottoterra. «Di nobile stirpe!», prosegue il viandante. «E come ti chiami?», chiede ancora. «Numenio», dichiara il morto. «A quanti anni sei morto?», è la domanda di rito. «A quaranta anni», dice Numenio. «Sarebbe stato meglio tu fossi vissuto ancora», commenta giustamente il passeggero. «Ma era necessario che morissi», è la replica. Come dire: non ci si può opporre al destino. «Queste cose che dici sono degne di te. Statti bene», è la chiusura a commento, con tanto di augurio finale. Ma il saluto del morto è ancora più singolare: «Stai bene anche tu. A te infatti rimangono i piaceri; noi ne abbiamo avuti abbastanza». C’è una storia dietro a questo minuetto di complimenti. Numenio muore a quaranta anni, quindi relativamente giovane: e il viandante si meraviglia. Però la durata media della vita non era di gran lunga superiore agli anni vissuti da Numenio: anzi arrivare a quaranta anni era certamente un bel traguardo. Ma c’è dell’altro: al destino non ci si può opporre più di tanto, anche perché in definitiva si è vissuto fra i piaceri. E non importa stabilire se Numenio sia stato o meno un gaudente: interessa riflettere su quanto Numenio scrive di se stesso.

L’aldilà e le sue preoccupazioni. Il dialogo, infatti, è immaginario e totalmente immaginato e sarà stato lo stesso Numenio a scrivere la sceneggiatura riprodotta sulla sua pietra tombale. È quindi Numenio, a cui interessa mettere in evidenza le sue origini, far rilevare il suo fatalismo e trovare giusta una vita vissuta fra i piaceri. Numenio come Massimo Catalano: e non gli possiamo dare torto. «Non passare oltre all’epigramma, o viandante» inizia così un’altra iscrizione greca di Roma. Greca, sì e non deve meravigliare: fino al III secolo dopo Cristo è il greco la lingua ufficiale dell’impero. E in greco si esprime il morto, scettico e didascalico insieme. Autorevole sconfinante nell’autoritario, dice a chi cammina sulla strada: non passare oltre all’epigramma «ma fermati, ascolta e vai via solo dopo aver appreso. Non c’è nave nell’Ade, né il nocchiero Caronte, né Eaco con le sue chiavi, né il cane Cerbero. Noi tutti che quaggiù siamo morti non siamo diventati che ossa e cenere e null’altro. Ti ho detto la verità; vai o viandante, poiché da morto non ti sembri troppo chiacchierone!». Scettico, didascalico, vagamente autoritario, nonché ironico: i morti non dovrebbero parlare, né apparire chiacchieroni, pur mettendo in dubbio ogni certezza sull’aldilà. C’è il nulla dall’altra parte del cielo: non si abbia paura di Caronte con il suo traghetto per anime, dorma tranquillamente chi si aspetta Eaco con le chiavi per aprire le porte dell’Ade, non si spaventi chi pensa di trovarsi di fronte Cerbero il cane a tre teste. Nulla dopo la morte e soprattutto nulla di quanto si immagina ci possa essere. È un’idea cara all’uomo antico: un’idea che torna martellante in tante altre iscrizioni, un’idea derivata in parte dall’influenza della filosofia epicurea. «C’è il nulla oltre la morte, nulla è più utile», sentenzia una lapide di Brescia dedicata a Pudente e sullo stile di questa ne troviamo tante altre. Ma il chiacchierone greco di Roma non riesce a tenere la bocca chiusa, nonostante i proclami autoironici. Per cui deve necessariamente cantare ai quattro venti l’inutilità di preoccuparsi del dopo, non solo da parte di chi se ne è andato, ma anche e soprattutto da parte di chi rimane. Le sue parole incise sono quasi uno sberleffo: «Non donare alla stele profumi e corone: è una pietra. Non accendere il fuoco: è una spesa inutile. Se avevi qualcosa da darmi, dovevi farlo quando vivevo, e facendo libagioni sulla cenere fai del fango e il morto non beve. Io stesso sarò così. E tu gettando terra sulla carne devi dire: “Ciò che ero quando non ero, ora lo sono diventato”». È un testamento beffardo espresso al viandante, prossimo defunto. Niente sacrifici sulla tomba: se versi vino latte e miele sulla cenere, fai solamente del fango e certamente il morto non ne beneficia. Che senso ha – poi – portare fiori a una stele di pietra? E di raccomandazione in raccomandazione troviamo descritte le ritualità più comuni, assieme a una frase che echeggia fin troppo da vicino le nostre formule funerarie: pensiamo, per esempio a «Quello che siete fummo, quello che siamo sarete». Ma il chiacchierone, chiacchierando, si contraddice: affida le sue sentenze a una stele di pietra, su di una tomba, presso la quale qualcuno sarà andato a ricordare la sua memoria. Parce sepulto, dicevano i latini: sii tollerante nei confronti di chi è morto. Chi vive la morte deve essere necessariamente contraddetto. C’è chi è arrabbiato contro la vita, colpevole di creare illusioni e inganni. Così su una iscrizione di Roma: «La violenza del fato ti travolse, anima sventurata, e molti mali hai sopportato, nata qual sei dal nulla dove sei ricaduta, anima, requie invocando ai mali: e che altro traesti dalla vita se non male?». Già, «che altro traesti dalla vita se non male»: «Nam quid aliud apsulisti vitae nisi malum!», e in latino è molto più espressivo. C’è chi vorrebbe chiudere la parentesi chiamata vita e rientrare nel tutto delle origini. «La morte ci riporta in quella tranquillità dove eravamo prima di nascere», scrive nel I secolo d.C. Lucio Anneo Seneca. E questo concetto si riflette in una iscrizione di Capua, «sventurata, carica d’anni, sopravvissi al marito e alla figlia». Alla fine la vita diventa un peso: e lo diventa a maggior ragione allorquando si vedono finire vite attorno a sé. E, in latino, il testo è ancor più bello: «Infelix annosa viro nataeque superstes». È in metrica, e in quell’annosa c’è tutto il senso di stanchezza nei confronti di una vita cattiva, verso la quale è più giusto essere risentiti e non tolleranti. Una vita rimasta quasi a dispetto nel corpo di chi non la voleva più e andata via da chi forse aveva ancora qualche ragione per continuare a vivere.

Il “carpe diem”. Per l’uomo antico sentirsi realizzato voleva dire anche riuscire a vedere i figli e i figli dei figli, mentre – per contrapposizione – uno dei dolori maggiori era veder morire i figli. E allora pensiamo alla condizione di questa donna, oramai vecchia, stanca, vedova e rimasta senza figli; proviamo a immaginare tutto questo anche in rapporto alla vita quotidiana della donna, prima soggetta al padre e ai fratelli, poi soggetta al marito e ai figli. Sempre a Roma è l’iscrizione di un giovane marito costretto a seppellire la moglie ancor più giovane di lui. Le parole sono toccanti: «Se v’è chi consente a prender parte al nostro dolore, si avvicini e non ricusi qualche lacrima», dicono i versi rivolti al solito al viandante, ritenuto solidale. «La giovinetta che solo ebbe cara, rapito in un dolce amore, e qui ha deposta, sventurato! Fu la sua sposa, fino a che lo permise il breve tempo concesso dai fati. Ora, strappata alla casa e ai suoi cari, è qui sepolta». Fin qui, nulla di particolarmente diverso da formule legate a tombe del genere. Ma gli ultimi due versi sono di una dolcezza straordinaria: «Omne decus voltus et eo laudata figura / umbra levis nunc est parvos et ossa cinis». Cioè: «Tutta la grazia del volto, e la persona tanto ammirata sono ombra lieve; le ossa un pugno di cenere». E così vediamo riaffiorare credenze ancestrali, arrivate fino a noi: dal ritornare cenere dalla cenere, alla sopravvivenza eterna legata al mondo delle ombre dove tutti prima o poi ci si ritrova dopo aver perduto la consistenza fisica ed esser diventati incorporei. Come ombre per l’appunto. Ma in altre iscrizioni traspare evidente l’esortazione a godersi la vita: alcune in tono più dimesso, altre senza troppe remore. «Fino a diciotto anni, vissi come meglio potei diletto al padre, a tutti gli amici. Scherza, divertiti, te lo consiglio: qui regna estremo rigore!», parola di Cornelio Basso, romano, diciottenne. E fin qui possiamo dire di trovarci di fronte a un consiglio semplice, suggerito a partire dalla tristezza di una morte a diciotto anni. Ma quello che si legge sulla tomba di Claudio Secundo non lascia spazio ad alcun dubbio: «Balnea vina Venus corrumpunt corpora nostra. Set vita faciunt balnea vina Venus». Traduzione ovvia: «Le terme, i vini e Venere, distruggono i nostri corpi. Ma fanno la vita i bagni, i vini, Venere». Un po’ come il nostro «Bacco, tabacco e Venere riducono l’uomo in cenere». È il “carpe diem”, cogli l’attimo, vivi alla giornata. E una gran parte di iscrizioni coglie l’attimo. È il caso di Primo, seppellito a Ostia: «Hoc ego seu in tumulo Primus notissimus ille. Vixi Lucrinis, potabi saepe Falernum, balnia vina Venus mecum senuere per annos hec ego si potui, sit mihi terra lebis set tamen ad Manes foenix me serbat in ara qui mecum proferat reparare sibi». Un gaudente epicureo traducibile così: «In questo sepolcro io giaccio, il notissimo Primo. Mi nutrii di ostriche e spesso bevvi Falerno; bagni, vino, amore, un anno dopo l’altro mi accompagnarono fino alla vecchiaia. Se tanto potei mi sia lieve la terra. Ma presso i Mani una Fenice mi attende sull’ara, e s’affretta a rinnovarsi con me».
Anche Primo è notissimo, secondo lui. E forse avrà millantato anche sul tipo di vita: ostriche, vino buono, terme, donne e chi più ne ha più ne metta. E se la vita mi ha sorriso, ci dice Primo, da morto mi auguro di non sentire addosso il peso della terra, in attesa della resurrezione. Ecco le aspettative dell’uomo medio, a prescindere dalle religioni orientali, legate fortemente al concetto di resurrezione. L’atteggiamento sulla morte è questo ma anche il suo contrario. Per un Primo del carpe diem c’è Alessandro Gerente di Aquileia costretto a seppellire la moglie Primitiva scrivendo: «Non fueram, non sum, nescio, non ad me pertinet» («Non fui, non sono, non so nulla. Non mi riguarda»).

Vicende coniugali E cosa dire delle parole di Lucius Nomerius Victorinus, abruzzese trapiantato a Roma: «Credo certe ne cras» («Sono sicuro che non c’è domani»). Qualcun altro vive la morte come una liberazione. Lemisio, schiavo, sepolto in un colombario di Roma dice: «Qui giaccio io, Lemisio. Solo la morte mi dispensò dal lavoro». E forse voleva sottintendere: «A cosa è servito?». Lucio, marito di Rubria Postumia certamente ha vissuto fra centinaia di problemi. Pochi soldi, tanta fame, il problema della casa, sempre presente nella storia del mondo, al punto da chiedersi se sia nato prima il problema della casa e poi la casa. Lucio vive con Rubria diciotto anni e poi lei muore. Lui scriverà disilluso, consolandosi: «Io il tuo sposo Lucio dedicai questo monumento a te che l’hai meritato. Finalmente noi pure avremo una casa insieme». E quel problema della casa mai trovata torna drammatico, ma risolto morendo. La fine di tutto è anche la fine di tutti i problemi. Lo sa bene un altro romano di ieri: «Qui riposano in pace le ossa: ciò che resta di un uomo. Non mi angustia più il pensiero di trovarmi improvvisamente alla fame, sono immune dalla podagra, né mi accadrà più di essere garante d’un pagamento rateale. Usufruisco per sempre di un alloggio gratuito». Morte è anche amore, tanto per chiudere. Nebullo è uno schiavo e vede morire la sua donna. Nebullo è un servo e Marta è conserva, serva con lui: «Piansi, Marta, i dolorosi casi dei tuoi giorni estremi, e composi le tue ossa. Accetta questa prova del mio amore». Certamente un amore lacerante, un amore disperato al seguito delle sofferenze della giovane moglie, conserva dello schiavo Nebullo. Schiavo, ma profondamente colto e altrettanto profondamente innamorato della sua donna. Monogamo come una altra moglie costretta dalla vita a lasciare il marito. E lui, ironico, detterà al lapicida un testo provocatorio. «Obsequio raro. Sola contenta marito» («Virtù rara. Si accontentò del solo marito»). Un’altra epigrafe ancora riassume bene la condizione della donna, lei si chiama Claudia e suo marito si rivolge al viandante: «Straniero, ho poco da dire: fermati e leggi. Questo è il sepolcro non bello di una donna che fu bella. I genitori la chiamarono Claudia. Amò il marito con tutto il cuore». Bugia funeraria: centinaia di volte ricorre la formula «vixit cum marito sine ulla querela», visse con il marito senza litigar mai. Francamente incredibile. Mentre è assolutamente credibile tutto il resto: un resto dominato dalla casa, dalle responsabilità sui figli, dalla fedeltà, dal lavoro domestico, dalle ore passate al telaio. Ecco quel resto: «Mise al mondo due figli. Uno lo lascia sulla terra, l’altro l’ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare, onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito, Va’ pure». Appunto: ho finito, va’ pure.
Umberto Broccoli