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 2014  gennaio 03 Venerdì calendario

LA SECONDA VITA DI MUSSARI

In silenzio. Ogni mattina che Dio manda in terra, quando Siena ancora dorme sotto il manto della Vergine, un vento s’alza dalla Montagnola e arruffa i riccioli ormai imbiancati di Giuseppe Mussari, l’ex presidente del Monte dei Paschi.
È un vento senza nome ma in Piazza del Campo lo conoscono bene, perché è fatto a immagine e somiglianza dei senesi: non parla e non si sa da dove viene né dove vada. È il vento che ingrossava gli occhi alle madonne di Duccio, faceva alzare la testa di Caterina dal sasso di Fontebranda e ondeggiare il grano felice del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti. Mussari assapora quel vento mentre lascia gli Agostoli, il complesso residenziale di sua moglie Luisa Stasi. Dieci fra villette e appartamenti a cinque chilometri dalle quattro lupe della Torre del Mangia, che fanno a gara a svegliarsi prima per vedere se anche quel giorno Giuseppe sarà puntuale.
President prodige della Fondazione a 39 anni, della banca a 44 e dell’Associazione bancaria a 48, un anno fa, a 50, Mussari era già fuori da tutto. Anzi dentro, barricato nel silenzio degli olivi di Agostoli, dove si stava preparando a difendersi dalle accuse dei giudici che incontrerà il 22 gennaio prossimo. Ma soprattutto da quelle dei senesi che per dieci anni lo hanno pregato come il nuovo San Giuseppe, un protettore postmoderno in abito Tasmania e zainetto che aveva preso il posto della Vergine. Salvando dalle insidie dell’economia reale una città che nel 2010 aveva la stessa popolazione del 1300 ma era gratificata da una pioggia di denaro impensabile per gli uomini della Balìa, una delle prime espressioni della democrazia moderna. Cento milioni di euro all’anno per la Provincia, il Comune, le contrade, le associazioni culturali e giù giù fino a qualunque gruppo, confraternita, idea e stranezza. Considerando ovviamente i circoli dell’Arci ma non per questo dimenticando le tante parrocchie della Curia. Trentamila famiglie orgogliose di sé e della propria storia, che solo grazie “all’Alain Delon di Catanzaro” – un uomo “duro, intelligente, abilissimo nel costruirsi solide relazioni trasversali” – avevano tenuto un lifestyle fuori dalla realtà, fatto d’immobili alle stelle, megalomanie universitarie, squadra basket nell’empireo e star della regia ingaggiati per la creazione della mitologia bancaria. Senza dimenticare il Siena calcio, fra le prime squadre nazionali sempre salvata in corner.

Con il fantino del Palio. Un anno dopo Mussari è ancora sotto processo ma non rimane sempre in casa fra i faldoni. Ancora molto “energetico” seppur dimagrito oltre dieci chili, capelli più corti dove spicca la solita “faccia da cowboy buono”, ogni mattina sale in macchina e guida per una mezz’ora verso il Podere Focaie, vicino ad Asciano, nelle Crete senesi. Ad aspettarlo c’è un altro che di silenzio se ne intende, Andrea de Gortes, il mitico fantino Aceto del Palio, titolare di 58 partecipazioni, 14 vittorie e un’apparizione all’Isola dei Famosi. «Il Palio è quella cosa che se non si vince si perde», amava ripeteva Aceto all’apice della popolarità, un refrain diventato frase profetica quanto mai applicabile ad altre vicende. Anche per questo Aceto accoglie Mussari con un sorriso, che nasconde la preoccupazione per i destini dell’ippica nazionale. Ma fra i due non c’è bisogno di parole, perché ognuno sa bene chi è e cosa deve fare. Giuseppe entra nella stalla, sella il cavallo e parte. Inizia quindi a cavalcare, lentamente, nel silenzio del vento come farebbe Corto Maltese, l’eroe di Hugo Pratt e suo che si cambiò il destino disegnandosi la linea della fortuna sulla mano sinistra. Da solo, col coltello.
A volte anche Aceto lo accompagna, ma più spesso no perché Giuseppe è un cavaliere provetto, appassionato da sempre di solitudine e cavalli come il suo Giadel Menhir, con cui fece vincere la contrada dell’Istrice nel 2008. Dopo qualche ora a spasso fra le Crete, Mussari rientra e inizia a lavorare. Sistema la sella, pulisce i finimenti, striglia il cavallo e poi lo governa. Quindi mette a posto la stalla, fa la lettiera, sistema gli attrezzi e aspetta di sapere se c’è qualcos’altro da fare. Tutto in silenzio sotto lo sguardo di Aceto, che lo segue e lo consiglia come un figlio. Un’amicizia antica, quella fra il catanzarese e il sardo, nata dalla passione comune fortificata nella caduta. Perché chi li conosce molto bene sostiene che Giuseppe non ce l’avrebbe mai fatta, senza Aceto, a superare gli attacchi di panico della scomparsa di David, il capo della comunicazione, e dei primi mesi. Nella sua vita, il fantino è sempre stato presente, ma sempre più dopo l’episodio della Smart, quando Mussari viene accerchiato con l’avvocato amico Fabio Pisillo da una folla inferocita. Erano molti dei suoi ex fan, quelli che gli facevano la posta alle partite della Men Sana basket o a riverirlo davanti ai Terzi, la locanda dove andava spesso a mangiare quasi sempre da solo, nell’ultimo tavolo della saletta interna, avvolto dal consueto silenzio. Erano molti degli utilizzatori finali del fiume di denaro della Fondazione, eredi delle genti che Enea Silvio Piccolomini, una sorta di Mussari umanista al contrario, immortalò una volta divenuto papa Pio II: «Quando era Enea nessuno mi volea. Ora che son Pio, tutti mi chiaman zio».
Alla fine della giornata, Mussari se ne torna agli Agostoli, dove inizia la seconda parte della sua nuova vita, la cucina. L’ex presidente avrebbe infatti scoperto una nuova passione che eserciterebbe nei piatti più diversi. Dalla cacciagione agli animali da cortile, dalla tradizione senese al virtuosismo calabrese, Mussari cucinerebbe di tutto ma avrebbe un debole per il dessert. Anzi per il gelato al pistacchio. Specialità con cui amerebbe sorprendere i pochissimi invitati, lista su cui a Siena si favoleggia quasi quanto la provenienza dei pistacchi. Di Bronte o di Istanbul?
Ma le incognite sugli invitati si dissipano presto, perché molte cose sono cambiate da quando Mussari ascende per la prima volta alla presidenza dell’Abi, con la contrarietà dichiarata – pare – soltanto dal professor Giovanni Bazoli. «Una scelta che premia la competenza e la professionalità mostrate in questi anni», dettò all’Ansa l’allora segretario del Pd senese Eleonora Meloni. «Una nomina meritata per il lavoro svolto a Siena alla guida di una banca della quale la crisi ha fatto riscoprire le virtù tradizionali», puntualizzarono altri papaveri del Pd locale, oggi sulla strada della ricollocazione strategica, che più tardi si giustificarono. «Ma chi poteva saperlo?». Già, chi?
Oggi, sugli invitati alla mensa di Mussari le fonti si dividono prima di affievolirsi nel silenzio del vento della Montagnola. Per alcuni partecipano la moglie Luisa e le sue tre figlie, l’amico e avvocato Pisillo e forse Mauro Rosati, altra conoscenza storica che grazie a Mussari era diventato direttore generale della fondazione Qualivita. Per altri invece ci sarebbero Riccardo, il fratello minore che all’università di Siena è docente di Public management, e più raramente Luisa Torchia, catanzarese doc, docente di diritto a Roma 3, già consulente legale di Mps e Fondazione. Niente è sicuro però, perché il silenzio avvolge l’identità dei cavalieri della tavola rotonda cui potrebbero idealmente unirsi il ristoratore ed ex consigliere del Siena calcio Andrea Bellandi e last but not least Antonio de Gortes, presidente di Montepaschi Leasing e Factoring per volere esplicito di Giuseppe. Figlio di Aceto e implicato nelle vicende giudiziarie di queste ore, De Gortes Junior ha un passato politico non di sinistra. Anche per questo molti gli rimproverano di aver ottenuto ruoli solo grazie all’intercessione del potente amico. Dimenticando, però, che quando ancora l’argomento senesità valeva Acetello era uno dei rarissimi casi d’imprenditoria in città, spaziando dall’intrattenimento alla ristorazione.
La senesità resta comunque una chiave fondamentale nella vicenda pubblica della banca e in quella privata di Mussari, che di madre senese e padre di Catanzaro arriva in Piazza del Campo alla metà degli anni Ottanta per iscriversi prima alla Figc poi a medicina e quindi a legge. Capelli lunghi, faccia tormentata da un lutto personale, eskimo e kefiah d’ordinanza Giuseppe piace molto alle ragazze ma sta simpatico anche ai ragazzi. Non solo a loro però, visto che alla sua laurea, nel 1988, c’è anche il rettore Luigi Berlinguer, fratello del mitico Enrico e personalità dominante del quadro politico locale assieme a Pierluigi Piccini, singolare tipo d’intellettuale prestato alla politica che come sindaco di Siena dal 1990 al 2001 diventerà alfiere della senesità del Monte.
L’amiatino Piccini mostra di gradire molto l’intelligenza e l’energia di Mussari, scegliendolo prima come consulente informale e alla fine del proprio mandato nominandolo membro della Fondazione, che con il 60 per cento delle azioni allora controlla la banca. Intuizione fin troppo corretta. In pochi mesi infatti Mussari brucia le tappe e passa alla presidenza, con un’ascesa senza precedenti e un piccolo particolare. La poltrona della Fondazione era quella prevista per lui, Piccini.
È nell’aprile 2006 però che Mussari fa il vero salto nel potere, passando dalla Fondazione alla Banca, dove vuole imporre una sua particolarissima idea di senesità. Mentre tutti gli istituti si stanno fondendo in agglomerati non è più possibile rimanere fermi a guardare i mercati dalle bifore del Trecento, ascoltando il suono delle chiarine mentre tutti suonano il rap. Occorre aprirsi al mercato portando la Balzana, simbolo della città, a livello nazionale e se possibile europeo. È l’unica strada per non essere scalati e perdere qualunque autonomia, pensano Mussari e i suoi referenti, che come scrisse Alberto Statera lo porterebbero vicino «a Comunione e liberazione, Opus Dei e Massoneria», a Turiddo Campaini della Unicoop di Firenze, al ministro Giulio Tremonti, a Giuseppe Guzzetti allora alla Fondazione Cariplo e a Francesco Gaetano Caltagirone.
(Anche) Da qui l’idea di acquisire Antonveneta, che il Banco Santander aveva rilevato poche settimane prima dall’Abn Amro per 6,6 miliardi. «Non ci furono riunioni con i rappresentanti di Mps per negoziare la vendita di Antonveneta, ma si trattò tutto per telefono con Mussari», avrebbe dichiarato in seguito Emilio Botin, presidente del Santander che alla terza telefonata definisce l’accordo così: «Nove miliardi, risposta entro 48 ore, prendere o lasciare». In realtà Mussari tenta di abbassare il prezzo, ma Botin non cede. L’acquisto viene annunciato l’8 novembre 2007: «Non abbiamo pagato un prezzo caro per Antonveneta», afferma Mussari dieci mesi prima che la finanza mondiale sia travolta dall’implosione di Lehman Brothers. Ma se non lo potevano sapere i guru della finanza mondiale che viaggiano da Wall Street a Tokyo, come poteva prevederlo chi si era fatto le ossa in viale Curtatone, sede del Pd di Siena?
Oggi invece la senesità della Banca non vale più un centesimo. E Alessandro Profumo, che ha preso il posto di Mussari nella sala più bella del castellare dove i Salimbeni organizzavano feste e commerci, lo ripete fin dal primo giorno. Dopo sette trimestri in perdita tutti pesantissimi, Profumo ha giocato l’ultima carta di quella che la città vive come un’esecuzione testamentaria. Fare l’aumento di capitale in queste settimane, per salvare in extremis la banca tagliando l’ultimo brandello di cordone ombelicale con la città. Da qui lo scontro consumato in questi mesi con Antonella Mansi, il nuovo presidente della Fondazione che viene da Scarlino, ovvero da quelli che una volta erano i paschi, cioè i pascoli del Monte. Mansi ha chiesto tempo per non scendere sotto i 12,8 centesimi ad azione causando l’esecuzione delle banche creditrici e soprattutto mettendo fine alla storia raccontata nei Cantos dal poeta americano Ezra Pound, quella dell’unica banca al mondo «fondata sulla benevolenza della natura ridistribuita sul territorio».
«Noi paghiamo per scelte ideologiche e non economiche», spiega Bruno Valentini, il nuovo sindaco che in queste ore sta gestendo un passaggio probabilmente irreversibile per la città. Seppur proveniente dall’apparato postcomunista, Valentini è un estraneo alla gestione del potere degli ultimi quindici anni e considerato vicino a Matteo Renzi. Anche per questo è stato eletto, complice la debolezza della destra cittadina, ritrovandosi però un consiglio comunale dominato dagli uomini dell’ex sindaco Ceccuzzi, che per giunta ha vinto le ultime primarie. «Il miraggio dell’acquisizione di Antonveneta, che le autorità non hanno vigilato, era l’idea di crescere rimanendo se stessi. Un progetto impossibile. La posizione che abbiamo portato avanti con il presidente Mansi non è quindi di scontro ma di disponibilità, non solo a ritrovarsi in minoranza ma a salvaguardare le strategia di crescita della Banca. L’unica riflessione su cui abbiamo insistito era il valore attuale della stessa banca, 2 miliardi che non ci sembrano adeguati a una realtà di 28mila dipendenti e 6 milioni di clienti. Da qui la richiesta di tempo, perché oggi il bilancio è ripulito e se lo spread dovesse scendere sotto i 200 punti il Monte non avrebbe bisogno di aumenti di capitale».
Così, nell’assemblea del 27 dicembre, è stata l’ultima volta che Antonella Mansi ha potuto dire di no ad Alessandro Profumo. Ma a ben vedere si tratta di contrapposizioni apparenti, perché Profumo e Mansi sono l’espressione dello stesso mondo nuovo, altri poteri e geometrie inedite dove i vecchi schemi non valgono più, dove banchieri e manager ragionano con logiche diverse e su piani internazionali, discutendo con azionisti e interlocutori fino a ieri impensabili, siano essi kazaki, arabi o argentini. In linea quindi con un modello di società glocale dove la senesità al massimo può far tenerezza perché presto potrebbero perdere di significato parole più significative come comune, provincia, contrade e partiti.
Ascoltando il silenzio del vento della Montagnola una sola sensazione è forte e chiara. Con il 2014 a Siena tutto è cambiato e si è aperto l’ignoto. Un’altra stagione, sconosciuta a tutti, in cui per la prima volta nella sua storia i soldi che la Fondazione potrà erogare si potrebbero ridurre fino ad arrivare a zero. Solo i senesi sembrano non volerlo capire, preferendo continuare a dare la colpa a Mussari e ad Antonio Vigni, l’ex direttore generale liquidato con 4 milioni come incentivo all’esodo, invece di rimettersi a far politica con le idee e la volontà come predica Valentini. All’angolo dell’Unto vicino al bar Nannini e nelle società di contrada si sente ancora discutere sul perché e il percome Franco Ceccuzzi e Alberto Monaci abbiano litigato, portando all’implosione degli accordi politici tra postcomunisti ed ex democristiani di sinistra che per decenni avevano tenuto in equilibrio banca, comune e provincia.
Invece di rimettersi a fare imprenditoria con le idee, richiamando la diaspora dei talenti emigrati un po’ ovunque da Modena a Liverpool, i senesi sembrano sperare in un altro santo che li possa salvare da un’altra Peste nera, come quella che nel 1348 decimò di due terzi la popolazione d’Europa costringendo gli avidi senesi a ridimensionare il Duomo Novo. Magari proprio Pier Luigi Sacco, il professore milanese scelto (ancora da Ceccuzzi) per curare la candidatura di Siena a capitale della cultura del 2019. Un progetto ambizioso, giunto felicemente in finale, in cui Gianna Nannini diventerebbe una specie di Santa Caterina rediviva, con una storia personale un po’ diversa ma l’unica capace di trascinare Siena nuovamente all’attenzione del mondo. E dal mondo una nuova pioggia di denari e possibilità a Siena, «non minori di quelli un tempo erogati dalla Fondazione» chiosa Valentini.
Come sempre, però, il finale di partita a Siena è scritto nel silenzio del vento della Montagnola. Un vento senz’altro amico, che ti viene incontro col capo piegato come San Bernardino prima della predica. Un vento però di cui fino in fondo non ti puoi fidare. Perché ti sorride e manco te ne accorgi te lo ritrovi in casa, a sbraitare come Cecco Angiolieri o piangere come Pia dei Tolomei. Finché, così come è arrivato, all’improvviso se ne va. Senza salutare né chiedere scusa.