Federica Bianchi, l’Espresso 3/1/2014, 3 gennaio 2014
WELFARE, VADO AL MINIMO
C’è voluto il disastro economico perché anche l’Italia, Cenerentola europea assieme alla Grecia e alla Croazia (che però, entrata l’anno scorso, già si sta attivando), si rendesse conto che uno Stato sociale non è tale se non è in grado di farsi carico anche dei suoi cittadini più poveri e meno fortunati.
Di quale legislazione il nostro Paese si doterà per garantire ai suoi membri un reddito minimo di sussistenza (o qualcosa di simile, probabilmente una versione mediterranena dei classici sussidi di disoccupazione nordeuropei), non è ancora chiaro. Gli interessi politici sono fortissimi, quelli dei sindacati anche, le risorse economiche scarse e le "particolarità italiane" - tasso d’evasione fiscale e poco senso civico - paralizzanti. Ma il 2014 potrebbe essere l’anno in cui quei cittadini italiani e quei residenti di lunga durata senza occupazione e senza mezzi potrebbero trovare sollievo.
Perché ciò avvenga occorrerà aggiornare la macchina amministrativa pubblica che dovrà occuparsi dell’erogazione del denaro; rodare in fretta il nuovo Isee (l’indice che misura la condizione economico-patrimoniale di una famiglia) intensificando i controlli per limitare i troppi furbi e abolire o almeno riformare sussidi storici a cominciare dal variegato sistema pensionistico di cui si è dotato il nostro Paese. Idealmente infatti il reddito minimo garantito dovrebbe sostituire le pensioni sociali e le integrazioni al minimo, oltre alle prestazioni di indennità civile - assegno di assistenza, indennità di frequenza minori, pensioni di inabilità e indennità di accompagnamento - ovvero una serie di benefit incondizionati che non riattivano lavorativamente l’individuo. Ma, soprattutto, il progetto dovrà vincere le tante resistenze politiche sia a destra che a sinistra: ad oggi una pensione di inabilità, ad esempio, è facile oggetto di voto di scambio.
A spaventare, oltre alla perdita della presa politica su una certa parte dell’elettorato, è anche la creazione dei presupposti per una flessibilizzazione del mercato del lavoro. Va da sé che se a ogni cittadino è garantito un reddito di sostentamento allora è più facile impostare contratti flessibili che magari non garantiscono il posto a vita (un’altra eccezione italiana) ma rendono più facile trovare o cambiare lavoro, come avviene nel resto d’Europa.
Nonostante dubbi e difficoltà la questione reddito minimo e sussidi di disoccupazione universali è finalmente sul tavolo della politica. Un passo in avanti considerato che da noi, come avviene solo in alcuni Paesi scandinavi, non esiste nemmeno il salario minimo universale, uno strumento, a differenza del reddito minimo, di politica del lavoro e non di welfare ma altrettanto utile nella redistribuzione del reddito nazionale. Matteo Renzi, il neo leader del Partito democratico, ha annunciato prima di Natale che la sua squadra (all’Economia c’è Filippo Taddei) è all’opera per elaborare un sussidio di disoccupazione sul modello danese: più che una misura assistenziale si tratterebbe di un contributo temporaneo che aiuterebbe i disoccupati a ripartire lavorativamente, dunque legato all’obbligo della ricerca del lavoro. In questa versione tornerebbero a essere cruciali i "centri regionali per l’impiego", uffici pubblici di collocamento che al momento hanno un’utilità marginale ma che potrebbero essere potenziati e affiancati da agenzie private di ricerca del lavoro.
Occorrerà vedere se il giovane leader riuscirà a spuntarla sia all’interno del suo stesso partito sia contro Susanna Camusso, segretario della Cgil. Qualsiasi meccanismo che preveda automatismi (del tipo "chi ha un certo Isee indipendentemente dalla categoria lavorativa di appartenenza riceverà un certo aiuto dallo Stato") potrebbe infatti ledere la base di potere tradizionale dei sindacati. Dunque con l’implementazione del reddito minimo sarebbero a rischio le infinite barriere settoriali e regionali erette da corporazioni, partiti e sindacati nei decenni del Dopoguerra.
Dalla sua l’ala politica riformatrice ha il Movimento 5Stelle che del reddito minimo fece uno dei punti principali del suo programma. Lo chiamano reddito di cittadinanza, ovvero un reddito che spetterebbe a tutti i cittadini indipendentemente dalla situazione economica individuale: nel mondo reale esiste solo in Alaska, grazie ai proventi del petrolio e alla scarsità della popolazione. Ma a leggere bene il programma il loro reddito di cittadinanza è più simile a una versione di reddito minimo: prevede una forma di aiuto (600 euro) garantito a tutti i cittadini residenti in Italia e agli immigrati residenti da almeno due anni con più di 18 anni di età che hanno un reddito inferiore alla soglia di povertà individuata per nucleo familiare. Il punto critico riguarda il fatto che il reddito erogato sarebbe al netto della tassazione e non considererebbe la posizione patrimoniale dell’individuo.
Simile alla proposta stellata ma diretta a una platea pià ristretta è la ricetta elaborata dal "Basic Income Network", un’organizzazione che si batte per l’instaurazione del reddito minimo in tutto il mondo, e presentata in Parlamento da Sel: i beneficiari, oltre a essere residenti in Italia da almeno due anni, dovranno avere un reddito imponibile inferiore agli 8 mila euro l’anno (6.880 in un’ulteriore proposta depositata in Parlamento lo scorso aprile dal Pd) e non avere maturato i requisiti per la pensione. La concessione avrebbe durata soltanto di un anno ma potrebbe essere rinnovabile su richiesta dei centri per l’impiego.
A dire la verità, sotto la pressione dell’Unione europea, il nostro Paese aveva già sperimentato a partire dal 1992 timidi tentativi di applicazione del reddito minimo garantito in alcune regioni tra cui Lazio (2009), Campania (2003) e Trentino (2009). Ma, indebolite dalla difficoltà da parte delle regioni di individuare le famiglie effettivamente in difficoltà estrema e dalla scarsità delle risorse a disposizione, le legislazioni sperimentali delle prime due regioni furono prontamente abolite con il cambio di governo. Una fine simile fece anche il tentativo del primo governo Prodi che introdusse il reddito minimo nella finanziaria del 1998. Finì per essere gradualmente eroso e poi completamente smantellato dal governo Berlusconi nel 2003.
«Solo adesso che la disoccupazione italiana sta raggiungendo livelli mai visti prima è tornata l’attenzione sul reddito minimo garantito», spiega Gianluca Busilacchi, docente di Sociologia dell’integrazione europea e sociologia del welfare europeo all’Università di Macerata, autore del libro "Welfare e diritto al reddito" in uscita il prossimo 10 gennaio: «A differenza degli altri paesi europei, l’Italia per decenni ha privilegiato malati e anziani a scapito di madri, giovani e poveri. Da noi chiunque - dal clandestino a Silvio Berlusconi - ha diritto all’assistenza medica gratuita ma non a una vita dignitosa». Della spesa italiana per il welfare il 67 per cento ricade sotto la voce pensioni, il 26 spetta alla sanità e solo il 7 all’assistenza familiare, di cui tra l’altro una metà finisce in pensioni sociali o di anzianità. Tanto per citare un esempio, la spesa pubblica per aiutare le donne a crescere i figli è pari a all’1,3 per cento del Pil, inferiore del 39,3 per cento rispetto alla media dei 28 Paesi Ue. «Sono troppe le categorie completamente escluse dallo stato sociale italiano», chiosa Claudio Gnesutta, docente di Economia alla Sapienza e collaboratore del sito Sbilanciamoci.info. Continuare a ignorare i bisogni di giovani e famiglie - spiegano gli studiosi di welfare - diventerà sempre più difficile: la globalizzazione e l’informatizzazione del pianeta hanno fatto sì che ci sia meno necessità di manodopera di una volta. Risultato: i tassi medi di disoccupazione rimarranno elevati almeno per il prossimo decennio e saranno i giovani, non i vecchi, la categoria sociale ad avere maggior bisogno di assistenza. Pena l’instabilità sociale.
Secondo Busilacchi la ricetta giusta per il nostro Paese sarebbe quella di inserire il reddito minimo in un sistema più ampio di ammortizzatori sociali, come già fatto da altri otto paesi europei: Francia, Gran Bretagna, Finlandia, Irlanda, Portogallo, Germania, Spagna ed Estonia. Si tratta di un sistema a più livelli in cui il reddito minimo garantito rappresenta l’ammortizzatore sociale di base, la risorsa di ultima istanza. Al di sopra esiste un’indennità di disoccupazione universale di tipo assitenziale, finanziata dalle casse statali all’interno della quale far rientrare l’attuale Cassa integrazione e, ancora al di sopra, un’indennità di disoccupazione a base contributiva (cioè finanziata da dipendenti e datori di lavoro) di entità più consistente (80 per cento del salario) che scatta appena il lavoratore perde il lavoro.
Proprio il rapporto tra protezione dalla povertà con trasferimenti monetari e l’attivazione individuale tramite l’inserimento lavorativo sono i tratti caratteristici inseriti nei sistemi di reddito minimo dalla maggior parte dei paesi europei.
Tra tutti i metodi elaborati, il più efficace nel combattere la povertà è quello danese: in questo caso il trasferimento monetario di 1.300 euro è addirittura superiore alla soglia di povertà ma le condizioni di accesso al sussidio pieno sono molto restrittive perché richiedono la nazionalità o una residenza di sette anni oltre ad altre condizioni stringenti come l’obbligo per entrambi i coniugi ad accettare i lavori proposti dai centri per l’impiego. In altri Paesi invece la soglia di accesso è meno alta (ad esempio, basta la presenza sul territorio, come in Gran Bretagna) ma l’erogazione monetaria è meno generosa. Negli ultimi due anni poi, complici la crisi economica e l’aumento del tasso di disoccupazione, il livello del reddito minimo è in discesa. Ora raggiunge in media solo il 52 per cento della soglia di povertà.
Naturalmente un programma simile comporta costi ingenti che vanno dai 7-8 miliardi previsti dalla bozza di reddito minimo elaborata da una commissione presso il ministero del Welfare ai 20 miliardi ipotizzati dal piano del Movimento 5Stelle. Una buona parte delle risorse dovrebbe provenire dalla riforma degli strumenti di assistenza già in atto e dall’inclusione delle varie forme della nostra cassa integrazione. Il che vorrebbe dire un ripensamento dell’intero sistema di welfare italiano così come lo abbiamo conosciuto dal Dopoguerra in poi. Un’enorme sfida politica, certo. Ma soprattutto un’epocale battaglia generazionale.