Riccardo Staglianò, Il Venerdì 3/1/2014, 3 gennaio 2014
LA RIVOLUZIONE IN AMERICA? È UNA TIGRE DI
CARTA –
New York (dal nostro inviato). La rivoluzione sarà rilegata. Alla Barnes&Noble di Union Square, la libreria il cui caffè si trasforma spesso in temporanea base operativa per anarchici e socialisti newyorchesi, il nuovo pantheon siede immobile sullo scaffale delle riviste. I neonati Jacobin e The New Inquiry. L’adolescente n+1. L’anziano ma rinvigorito Dissent. Per citarne solo alcuni, tacendo della collana Pocket Communism della gloriosa Verso, portabandiera della New Left britannica, a pochi metri di distanza, tra i libri. La sinistra è morta, viva l’editoria di sinistra. Rianimata da editor ventenni, per un pubblico (mentalmente) giovane, che vuol fare di tutto per smentire la profezia del pur amatissimo Slavoy ÿižek su Occupy Wall Street: «I carnevali costano poco. Quello che importa è il giorno dopo». Loro ci sono ancora. Nonostante le varie dichiarazioni di morte presunta, come quella che si desume da un utile rapporto del locale istituto Rosa Luxenburg: «La sinistra (americana) è dura da trovare e ancor più da definire». Soprattutto se sei europeo, abituato all’equivalenza tra politica e partiti. Che qui conduce solo a frustranti aporie.
Tipo credere che il Communist Party Usa, un martello e una specie di falce stilizzata nel logo, abbia qualcosa a che fare, non dico con la rivoluzione permanente, ma almeno con un progressismo radicale. Il suo segretario si chiama Sam Webb, sessantenne laureato in economia nel Connecticut. L’ultima apparizione sulla stampa borghese risale al 2006. Due battute su Forbes: «Cos’è per me il denaro? Ciò di cui la maggior parte di noi dispone troppo poco, nonostante gli sforzi dell’amministrazione Bush». Mi era sembrata un po’ moscia come affermazione. Lo contatto via posta elettronica prima di partire. Niente. Riprovo e metto in copia un paio di assistenti. Ancora niente. Chiedo a Nikil Saval, introdottissimo editor del trimestrale n+1, che mi fornisce altri contatti. I comunisti mangiano le email? Mi presento alla loro sede, sulla ventitreesima strada. Un sorridente pensionato alla reception interpella un cinquantenne dell’organizzazione che mi rassicura: «La chiamerà oggi stesso». Sto ancora aspettando. Forse l’indisponibilità, deduco da una serie di altri incontri, deriva dall’imbarazzo ad ammettere un annacquamento, quello sì radicale, rispetto alle origini («Sono diventanti ragazze pon pon di Obama» è la clausola più definitiva sul loro conto, copyright Bashkar Sunkara, che conosceremo a breve).
Larry Moskowitz era uno di loro. Ci vediamo in un ristorante messicano con menu fisso a 12 dollari e 95. A sessantasei anni un po’ sofferti è un uomo dall’espressione mite che ha imparato a tagliare i costi privati prima che diventasse una perniciosa ideologia pubblica. Vive a Inwood, sopra il Bronx, al canone calmierato (600 dollari) di un box auto altrove. Ha una pensione sociale di poco superiore e comunque tale da fargli rubricare un incisivo e un canino mancanti tra i beni di lusso. «Perché li ho lasciati? Perché non c’era margine di dissenso e detestavo il centralismo democratico. E soprattuto perché mancava il legame con i lavoratori». Così, nella migliore tradizione scissionista, cinque anni fa ha dato vita al Left Labor Project. «La nostra principale vittoria? Aver fatto rimettere il Primo maggio tra le festività ». Si incontrano una volta al mese («30- 40 persone, di più quando abbiamo ospiti famosi») tassativamente dalle 18 alle 20 perché «è un principio di classe: la gente prima lavora e comunque non ha tempo da perdere ». Collaborano con i sindacati, con organizzatori locali su campagne specifiche. «In Europa siete da sempre più a sinistra di noi. Qui è già tanto dedicarci a battaglie più circoscritte, come i diritti dei neri». Se proprio dovesse dire, a Lenin preferisce Bakunin, socialista libertario, che voleva saltare la «dittatura del proletariato» per paura che da fase intermedia diventasse permanente. E che prediligeva le «azioni dirette» del popolo, come la restituzione delle case confiscate ai vecchi proprietari in stile Occupy.
Prima di procedere facciamo due conti: trenta persone a New York è come dire nove persone a Roma. A spanne i membri del Communist Party saranno tre-quattromila. Quelli dei Democratic Socialists of America, il più robusto raggruppamento, circa settemila. Il Socialist Party Usa, che ha sede in uno sgarrupato trilocale del Lower East Side, è frequentato come una bocciofila d’inverno. Anche alcuni successi editoriali di cui va giustamente fiera Audrea Lim, la trentenne editor di Verso che incontro in un bar di Brooklyn, vanno da poche migliaia alle quarantamila di ÿižek, che però è una star globale. Dividete almeno per cinque per un confronto con il mercato italiano.
Piccoli numeri (crescono). Lo stesso ÿižek è protagonista all’Ifc Center, il cinema d’essai più ortodosso del Greenwich Village, di A Pervert’s Guide to Ideology, un documentario in cui il filosofo marxista disseziona l’immaginario collettivo, dalla fenomenologia degli ovetti Kinder all’ideologia subdola de Lo squalo.
Alle 10 di mattina, con fuori un sole incongruo, una ventina di persone sono pronte a immolarsi per due ore e venti davanti alle digressioni del pensatore barbuto che tiene un poster di Stalin sul letto. Ma questa è New York, dove L’insurrezione che viene, libello culto degli indignados globali, si trova nella sofisticatissima libreria del New Museum di Soho. La città più economicamente iniqua del mondo che può vantare una statua di Lenin su un palazzo che si chiama Red Square e che punta il dito ammonitore verso Wall Street.
Dicevamo della nouvelle vague marxista. Bhaskar Sunkara, 23 anni da Trinidad, ne è il campione. Ci incontriamo a Bedford Stuyvesant, la zona di Brooklyn che era sinonimo di paura e dove Spike Lee ha ambientato il suo Fa’ la cosa giusta, dove ha casa e ufficio. Nel 2010, reinvestendo i soldi presi a prestito per l’università, questo ragazzino con la barba nera e la camicia bianca ha fondato Jacobin, una rivista marxista senza gli ermetismi e l’odore di muffa tipici del genere. Tre anni dopo, con cinquemila abbonati, ha doppiato quelli di Dissent che è su piazza dagli anni 60 e il sito viene visitato ogni mese da 250 mila persone. «Non mi piace il termine comunista. Per la disastrosa incarnazione sovietica che richiama. E anche il dibattito tra rivoluzione e riforma mi sembra superato. Piuttosto “riforma non riformista”, alla André Gorz, ovvero che non trascuri i bisogni sociali odierni senza rinunciare a una modifica strutturale. Il socialismo che vorrei estende il welfare, riduce la disoccupazione e introduce un reddito di cittadinanza».
In un editoriale recente ha scritto che «il problema della sinistra non è che è troppo austera e seria, ma che non si prende sufficientemente sul serio per fare i cambiamenti necessari». Una piattaforma sanamente socialdemocratica, nonostante le suggestioni iconografiche di cui l’appartamento è pieno. Tipo la foto di Lenin trattata alla Andy Warhol come sfondo del computer. Le antologie dei discorsi di Castro e di Chávez, di scritti zapatisti e una biografia di Trotzski («lui distribuiva i giornali per strada, non aspettava che fosse la gente ad andarlo a cercare»). Interventismo che condivide. «Insieme al sindacato degli insegnanti di Chicago, tra i più attivi del Paese, abbiamo realizzato un manualetto, da distribuire gratuitamente, che spiega perché l’ideologia neoliberista è sbagliata». Impaginato bene, non penitenziale come certi tomi degli Editori Riuniti anni 70. E la gente se lo legge.
Se vuoi che il messaggio passi non puoi prescindere dal linguaggio. L’hanno capito anche a Dissent, che di recente ha stupito il suo lettorato tradizionale con un pezzo su un artista del rimorchio a Copenaghen. «C’è un tipo che scrive guide su come portarsi a letto le ragazze all’estero. In Danimarca è andato in bianco, e la sconsiglia a tutti» mi spiega Sarah Leonard, trentenne editor della nuova leva, nella stanzetta-redazione vicino alla Columbia University.
«Partendo da questo dato abbiamo imbastito un reportage sull’uguaglianza dei sessi, divertente e documentatissimo. Un buon esempio del nostro nuovo stile». L’età media delle quattro persone della redazione è sui 25 anni («Direi che siamo più a sinistra di Michael Walzer», condirettore emerito). Ciò che la rivista si propone è dare un contesto culturale ai lettori. «Se si discute dei costi dell’istruzione è importante, ad esempio, ricordare che Cuny, l’università pubblica, prima era gratuita e ora costa 8000 dollari all’anno. Se hai vent’anni puoi non saperlo. Noi diamo quella prospettiva, indispensabile per fare confronti tra ieri e oggi». La stranezza, rispetto alla scena editoriale cui siamo abituati, è che qui tutti parlano bene dei concorrenti. Non pretendono primigeniture. Addirittura collaborano.
Ne sa qualcosa la fondazione Rosa Luxenburg. Capitolo americano dell’ente legato al partito socialista tedesco Die Linke, ha per missione quella di studiare i processi sociali e produrre convegni e rapporti. Il direttore Albert Scharenberg ha mappato la sinistra americana e se gli chiedi di riassumerla comincia parlando di scioperi di lavoratori dei fast food, di movimenti ambientalisti contro un gasdotto, di organizzatori locali che mobilitano piccole comunità, di singoli giornalisti influenti. Poi, dopo quindici minuti buoni, accenna alla costellazione di partitini tipo i comunisti renitenti alle email che abbiamo incontrato. «La loro influenza all’interno dei Democratici è minima. Ma in generale i partiti sono diversissimi dai nostri, basti ricordare che tutti possono votare alle primarie e nessuno può essere espulso». Più il fattore soldi che li condanna alla marginalità. In un sistema ferocemente bipolare, dove il vincitore prende tutto, non c’è spazio per i piccoli («Una campagna nazionale costa una fortuna»).
Sono i giorni di Bill de Blasio neo-sindaco. Agli occhi di un italiano sembra una gran vittoria per la sinistra. Ma la circostanza che a tanti occhi americani Grillo sembri la prova ontologica della democrazia dal basso mi suggerisce cautela sugli entusiasmi stranieri. Doug Henwood, fondatore della newsletter Left Business Observer e padrino intellettuale di Sunkara e altri giovani radicali, mi dice che anche lui ci sperava, ma che le prime nomine che ha fatto sono di personalità vicine ai palazzinari. Tutto dipende dai punti di partenza, ovvio, ma come Obama sembra più sexy di Letta, anche de Blasio sembrava più carismatico di Marino. Anche al netto dell’esterofilia.
La vera buona notizia, per il patchwork che abbiamo chiamato sinistra americana, risale a due anni fa. Nella fascia 18-29 anni, per la prima volta coloro che vedevano positivamente il socialismo superavano quelli negativi (49 contro 43 per cento), sorpassando anche le simpatie per il capitalismo (46 per cento). Succedeva tre mesi dopo Occupy Wall Street, il grande Gerovital del progressismo statunitense. Fino al 2000 chi voleva entrare negli Stati Uniti doveva rispondere a una grottesca domandina: «Hai fatto parte di organizzazioni comuniste?» (che sopravvive nel formulario I-485 per l’immigrazione in pianta stabile).
Oggi nelle librerie trovi L’ipotesi comunista di Alain Badiou, un libretto rosso che ricalca graficamente quello di Mao, presentato come Un nuovo programma per la sinistra dopo la morte del neoliberalismo. Qualcosa è cambiato. Quanto al decesso cui allude, fa venire in mente il commento di Mark Twain circa un erroneo necrologio che lo riguardava: «È una notizia largamente esagerata». Le riviste marxiste, giovani talpe, avranno ancora di che scavare.