Marco Cicala, Il Venerdì 3/1/2014, 3 gennaio 2014
VIENI, IN SPAGNA C’È UN KOLKHOZ
VIENI, IN SPAGNA C’È UN KOLKHOZ –
Marinaleda, Siviglia. (dal nostro inviato). Ma no, tranquilli, che non hanno abolito la proprietà privata. Non hanno soppresso neppure la merce. E, se arrivi la domenica, uno scampanìo ti segnala che perfino la religione è rimasta al suo posto. A prima vista, Marinaleda assomiglia a un qualsiasi altro pueblo del grande ventre andaluso. Degno, pulito, deserto. Per strada meno che nessuno: radice quadrata di nessuno. D’estate quaranta gradi minimo. D’inverno, adesso, temperature che cincischiano attorno allo zero. Ma non ti aggiri in una desolazione tetra. Perché il cielo è d’un azzurro lancinante. E quando ti capita di incrociare un umano, quello ti dice Hola! con una convinzione che altrove s’è persa.
È solo a metà di Avenida de la Libertad – la main street lungo la quale si sgrana il paese – che cominci a notare indizi dell’eccezione- Marinaleda. Sono murales con su scritte cose tipo: Contra el Capital, Guerra social; Otro mundo es necesario!; Camino a la utopía. Roba così. Se poi l’occhio ti cade sui nomi delle strade, scopri che si chiamano Che Guevara o Salvador Allende, Calle Igualdad o Solidaridad. Le ribattezzarono così alla morte di Francisco Franco. Ma il villaggio – oggi 2.700 abitanti – cominciò a far rumore qualche anno più tardi. Agosto 1980: per dieci giorni, settecento persone – bambini inclusi – si mettono in Sciopero della fame contro la fame. Tagliata fuori dallo sviluppo industriale, l’Andalusia campa – si fa per dire – di agricoltura. Ma il 90 per cento di chi lavora la terra non ne possiede nemmeno uno straccio. Le famiglie di Marinaleda vivono – si fa sempre per dire – con l’equivalente di due euro al giorno. Perciò – al grido di Holocausto social! – smettono di nutrirsi. Gran bailamme mediatico. Alla fine, dal governo arriva una trasfusione di denaro in grado di far sopravvivere gli scioperanti almeno fino a dicembre, il mese in cui c’è più lavoro perché si raccolgono le olive. Però, in una zona dove la riforma agraria latita da sempre, l’obiettivo è un altro: l’espropriazione popolare delle terre. Nella fattispecie quelle appartenenti al Duca dell’Infantado, che in Andalusia si ritrova 17 mila ettari. Incolti. I cafoni di Marinaleda gliene invadono un pezzo. La polizia li sloggia a bastonate. Loro ripiegano ordinati. Poi tornano a occupare. Fino al 1991, quando si giunge a un accordo. In cambio di un sostanzioso indennizzo sborsato dall’esecutivo regionale, El Duque molla 1.200 ettari. Diventeranno quelli della cooperativa El Humoso. Che è sempre lì. Dà lavoro a mezzo villaggio. All’entrata c’è scritto Tierra y Utopía. A Marinaleda la parola utopia punta i piedi. Tra fraseologie rivoluzionarie fuori tempo massimo, astuto buon senso contadino e fierezza collettivista. Perché qui non hanno collettivizzato soltanto le campagne, ma anche una bella fetta di vita pubblica. Al Comune le decisioni si votano per alzata di mano, in assemblee open doors convocate con l’altoparlante che, in giro per il paese, gracchia: Venite. Non tutti accorrono festosi. Molti continuano a farsi gli affaracci loro. Se esistesse un dépliant promozionale con l’elenco dei risultati ottenuti in questo micro-socialismo dal volto andaluso, ci trovereste tra l’altro: assistenza gratuita a malati e anziani; asili d’infanzia a 15 euro mensili; una fabbrica dove vengono messi in barattolo e venduti fino in Italia, il basilico, le fave, i peperoni, i carciofi coltivati nel simil-kolkhoz. Chi ci lavora prende 47 euro al giorno per turni di sei ore e mezza. E poi le case: 350 abitazioni di 90 metri quadrati più 100 di patio. Tutte costruite con lo stesso metodo: negoziando coi proprietari, il Comune converte suolo rustico in edificabile;
grazie ai fondi regionali, fornisce progettisti, materiale e qualche operaio, ma l’alloggio devi fabbricartelo da solo. Mutui agevolatissimi: 15 euro al mese.
In una delle casette autoprodotte vive l’uomo che è eroe eponimo delle lotte, non solo bracciantili, che hanno fatto di Marinaleda un’anomalia, un’attrazione mediatica o un Parco tematico dell’antagonismo – ridacchiano i detrattori. Da queste parti, Juan Manuel Sánchez Gordillo è avvolto dalla stessa aura, tra il messianico e il guerriero, che in altri evi fu degli agitatori anarchici o dei bandoleros – i briganti asserragliati sulle montagne circostanti. Per sgominarli inventarono la Guardia civil. Mentre il romanticismo popolare li beatificava come dei Robin Hood, anche se non lo erano. Il trascinatore Gordillo ha 64 anni. Su internet potete vederlo in decine di video tuonare nei comizi, levare il pugno in cortei e occupazioni come quella di una finca militare abbandonata per cui s’è appena beccato una condanna, impugnata, a sette mesi. O i blitz negli ipermercati espropriando alimenti base da distribuire ai bisognosi.
Mi hanno detto che JuanMa è in casa. Busso. Ma niente. È che da un annetto non sta più tanto bene – mi confessano a mezza bocca. Che ha? Mistero. Criptici, alludono a beghe familiari, spossatezza, stress. E le ultime traversie giudiziarie avrebbero aggravato il male oscuro. Nessuno osa pronunciare la parola depressione. Sta di fatto che negli ultimi tempi Gordillo si astiene dalla pugna. Mi allontano, un po’ avvilito pure io.
Senonché, un’oretta dopo, ecco che lo vedo spuntare di fronte al municipio. Barba scippata a Engels, una kefiah buttata sulla giacca a vento, avanza con aria svagata, sull’abbacchiato, come se non fosse diretto da nessuna parte. L’oratore vibrante parla adesso con umanissima lentezza. Il sorriso mite. O sfibrato. «Luchar cansa», lottare stanca, mi dice. «Qui abbiamo raggiunto tanti obiettivi. Ma i diritti conquistati non sono mai per sempre. Devi continuare a difenderli. La crisi li sta distruggendo. Però il pessimismo è reazionario». Mi racconta di come siano riusciti a comprimere la disoccupazione, delle nuove case popolari in costruzione, dei progetti di eco-agricoltura. Nel suo ufficio c’è una grande foto del Che e una, meno appariscente, della pasionaria Dolores Ibárruri. Gordillo è sindaco di Marinaleda. Il problema è che lo è dal 1979. Ininterrottamente. E benché non si definisca comunista, ma casomai comunitarista, sembra prolungare nel suo piccolo antiche usanze bulgare. Non solo a destra, gli avversari gli danno dell’autocrate, del cacicco rosso. Siamo al monocolore bonsai? «Ma quale partito unico » taglia corto lui. «Qui ogni quattro anni si rivota». Già, e stravincono sempre loro. Su undici consiglieri comunali, l’opposizione ne ha due: uno socialista, l’altro del Partido popular. Mi piacerebbe scoprire che faccia hanno, dove si nascondono.
Ma i nemici di Gordillo (che non sono pochi né teneri, lui ha già subìto un paio di attentati) vanno più a fondo: sgonfiano il miracolo- Marinaleda come un bluff. Cooperative, edilizia, servizi: l’intera economia sociale del pueblo sarebbe dopata, tenuta in piedi da laute sovvenzioni. Quelle elargite da poteri regionali tradizionalmente di sinistra, e protettivi, oltremodo indulgenti verso la piccola utopia campesina. Gordillo scuote la testa: «Non riceviamo più soldi di qualsiasi altro comune di queste dimensioni. È solo che abbiamo imparato a spenderli meglio». Non dribbla sulle contraddizioni del sistema-Marinaleda: «Nella produzione abbiamo vinto. Nel finanziamento ancora no. Nemmeno nella commercializzazione. Dopotutto, vendiamo i nostri prodotti sul mercato. Capitalistico». Ok, ma almeno siete felici? «Beh, qui si vive bene».
Tu chiamala, se vuoi, economia mista. Di capitalistico, o comunque non inglobato nel collettivo, a Marinaleda restano piccole proprietà rurali, qualche emporio, un forno, negozi di attrezzi agricoli, un ristorante, una mezza dozzina di bar. Tra cui il Pirri. Minuscolo. Di sobrietà quasi rupestre. Una nicchia di Andalusia sempiterna. Dietro il bancone, due-bottiglie-due di anice. Per il resto solo birra o vinello peleón, andantissimo. Alle pareti, toreri e madonne lacrimose. La chiesetta della Paz è a due passi. Ben tenuta, inabitata («Il prete non vive in paese. Grazie a Dio, viene solo per le messe» sogghignava Gordillo).
Ho appuntamento qui con Mariano Pradas, socialista, sparuto oppositore dell’Alcalde in consiglio comunale. Lavora nella nettezza urbana di un villaggio vicino. Arriva in Mercedes. E tanto per cominciare mi fa: «Lo so che cosa sta pensando». Ah sì? Cosa? «Eccolo, l’anticomunista borghesotto che gira col macchinone. Ma guardi che quest’auto è usata, ha 18 anni!». Del sindaco perpetuo dice: «È onesto, in tasca non si è mai messo un soldo. Ma il denaro pubblico come lo spende? Per favorire i suoi! Se non sei con lui diventi automaticamente un fascista». Consiglia: «Non creda alle cifre su edilizia e occupazione: sono gonfiate». Lamenta il clima di intimidazione. Racconta che alle ultime elezioni è dovuto uscire dal seggio scortato dalla Guardia civil. Che qui a Marinaleda è un po’ come il prete. Non c’è. Viene solo su richiesta. Un posto di polizia non esiste: «Perché non serve. Il livello di convivenza è ottimo» assicura Gordillo.
Quando tiri in ballo l’inamovibilità del leader mediomassimo, i suoi supporter nicchiano. Si ritengono inadeguati al comando: «Qui nessuno ha la sua capacità di dirigere» dice Mariano Gómez nella fabbrica di conserve. «A Marinaleda non funziona come nella solita politica, prima di presentarti discuti con la gente: anche la candidatura è un’espressione della volontà popolare» spiega Esperanza Saavedra, puericultrice, consigliere comunale e collaboratrice di Gordillo. Un’utopia tutta chiacchiere e sovvenzioni? Disinformazia: «Lo dicono perché temono un effetto contagio nella zona». Ma almeno siete felici? «Beh, qui la qualità di vita è alta. Soffriamo la crisi meno di altri posti. Siamo corazzati. Sai, i braccianti sono precari da quando esistono».
Fatta tara di ogni retorica – il villaggio di Asterix e altre amenità – non si capisce un accidente di Marinaleda se si perde di vista il pregresso delle lotte contadine che agitarono il grande Meridione spagnolo tra Otto e Novecento. Battaglie sulle quali la razionalità militare dell’indottrinamento comunista fece scarsissima presa (d’altronde, all’operaista Marx dei contadini fregò sempre nulla). Tra i cafoni che lavoravano por un gazpacho de sol a sol – per una zuppa dall’alba al tramonto– attecchiva invece l’anarchismo ingenuo e sentimentale, mistico, ferino. Sovversioni, tumulti remoti, certo. Ma hanno lasciato tracce. Anche perché l’assetto proprietario è cambiato poco. Sostiene un detto popolare che da Siviglia potresti risalire fino all’estremo nord senza smettere di calpestare le terre della Duchessa di Alba. Che tuttora possiede in Spagna 34 mila ettari. In Andalusia il 50 per cento del suolo appartiene al 2 per cento delle famiglie. Preferiscono coltivarlo a grano o a girasole: rende di più e costa meno in manodopera. El señorito, il latifondista, «si becca i robusti contributi Ue all’agricoltura senza creare lavoro». E non è più la figura – odiata, riverita, invidiata – di un tempo. Anche perché l’antica religione della terra – che, seppur nel conflitto, annodava servo e padrone – si va perdendo. Quel che resta dell’aristocrazia sguazza, magari affogandoci, nell’immaterialità distante dello Spettacolo e del gossip. Mentre i giovani guardano al lavoro contadino come a un pozzo nero di fatica e di noia. Internet – il wi-fi è gratuito in tutto il pueblo – li alletta con un altro mondo. Più vasto dell’utopia. Chi rema contro dice che l’austerity e il taglio dei fondi azzopperanno di brutto il modello- Marinaleda. E moltissimi si chiedono se c’è una vita dopo Gordillo il bandolero. Stanco.