Ettore Boffano, Il Venerdì 3/1/2014, 3 gennaio 2014
IO, RIMASTO VEDOVO DEL COMUNISMO, DELLA TORINO OPERAIA (E ANCHE DI DON BOSCO)
Torino. L’esordio ricorda la frase dei prigionieri di guerra, appena finiti nelle mani del nemico: «Mi dichiaro, ancora oggi, un comunista… ». Poi, però, Diego Novelli cita subito Gesù Cristo, quasi a confermare quel suo soprannome di «Don Bosco rosso» che i giornali gli appiopparono quando era sindaco di Torino. «Io credo nel comunismo, ma credo anche che Gesù di Nazareth sia la personalità più importante e più rivoluzionaria della storia dell’umanità. E lo ripeto, “dell’umanità”: proprio perché sia chiaro che io, ateo, non credo in Gesù figlio di Dio, ma in Gesù uomo».
Ottantadue anni: da ragazzo assiduo frequentatore degli oratori salesiani, poi giornalista dell’Unità, consigliere comunale e infine sindaco nella città della Fiat e degli Agnelli, dell’immigrazione selvaggia, della lotta di classe e degli anni di piombo. Dopo, e a lungo, parlamentare italiano ed europeo. Uno, insomma, che ha fatto in tempo a conoscere quasi tutta la storia del Pci: da Togliatti sino ad Achille Occhetto. «Ero con Giancarlo Pajetta quella mattina, dopo l’annuncio della Bolognina. Né lui né io sapevamo nulla e lo leggemmo sull’Unità: Pajetta era muto, come annichilito. Gli chiesi: ma che cos’è questa storia?».
Adesso, nella sua casa al centro di Borgo San Paolo, il quartiere dove Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti radunavano nei circoli operai i primi «compagni» di quello che a Livorno sarebbe poi diventato il Partito Comunista d’Italia, prova a ragionare senza rinnegare nulla: «Quando parlavo di me, all’inizio, dicevo che ero un vedovo, un vedovo del comunismo. Poi ho cambiato metafora, perché mia moglie mi ha fatto notare che non era una cosa molto carina. Ora dico che sono un orfano».
La stanza è gonfia di libri, di carte, di giornali e di fotografie, e di una incredibile collezione di statue lignee medioevali. Una vita di ricordi, come l’istantanea scattata a Mosca che lo ritrae assieme a Boris Eltsin, o il primo numero del settimanale Avvenimenti, del quale è stato uno dei fondatori. Era il 12 novembre 1988, e la rivista si apriva con una lunga intervista di Aleksandr Olbik proprio a Eltsin, che spiegava così il tramonto del Pcus: «La capacità attrattiva del socialismo si è affievolita…». Ecco, la memoria dell’Unione Sovietica si affaccia subito tra i ricordi dell’ex ragazzo rosso. «Il problema, secondo me, è stato proprio questo: il comunismo è stato stuprato dal socialismo reale». E Mosca? Che cosa rappresentava per quelli come lei? «Io avevo le idee precise già allora. Nel 1956, durante i fatti d’Ungheria, nella redazione dell’Unità di Torino volevamo uscire dal partito, non riuscivamo ad accettare l’dea “dell’aiuto fraterno” ai compagni di Budapest. Eravamo Italo Calvino, Gianni Rocca, Paolo Spriano, Luciano Pistoi, Adalberto Minucci ed io. Alla fine se ne andarono solo Calvino e Rocca, perché Celeste Negarville ci convinse a restare nel Pci per dare battaglia sui temi della democrazia».
Una battaglia facile? «In realtà il partito aveva ben chiara la situazione. E il Pci aveva già imboccato la “via italiana al comunismo”. Ma Mosca, soprattutto per chi aveva conosciuto la galera e il confino sotto il fascismo, era come il miraggio di una fontana nel deserto. E non c’era bisogno di essere bigotti né conformisti per pensarla così: anche in questo caso, mi viene in mente Pajetta, che non era certo un bigotto o un conformista. Poi, non potevi dimenticare, ogni volta, che cosa aveva significato quella rivoluzione, come aveva cambiato una società, come aveva liberato un popolo. Ma il problema erano i metodi e quel problema non è mai stato risolto: prima ancora di organizzare una società socialista, devi fare i conti con i valori che vengono prima di ogni altra cosa. La libertà, la democrazia».
L’Urss, e ciò che rappresentò per i comunisti di tutto il mondo, ritorna spesso nelle parole dell’ex sindaco. E quasi sempre come l’esempio di un modello che non si poteva accettare: «Per due volte, l’Unità mi propose di andarci come corrispondente. Allora, per un giornalista comunista italiano, era come se a un prete avessero proposto di andare a lavorare in Vaticano: il massimo, insomma. Io invece non ci volevo mettere piede, ero convinto che non avrei potuto scrivere tutto quello che volevo. Feci l’ira di dio entrambe le volte e, alla fine, riuscii a restare in Italia».
Ma che cosa rimane di tutta una vita? E perché quelle parole dell’inizio: «Mi dichiaro, ancora oggi, un comunista?». Novelli, per un attimo, riordina le carte appoggiate sul grande tavolo, poi riprende a parlare con la sicurezza che ha sempre segnato i suoi discorsi: «Alla fine, per me il comunismo sono tre-quattro valori fondamentali: la legalità, l’onestà, l’uguaglianza e la giustizia. Riassumendo: essere dalla parte degli umili, senza bisogno di credere in Dio». E un comunista ideale, ma esistito davvero? «Enrico Berlinguer, ne sono certo. Lo conoscevo bene e lui mi voleva bene, mi apprezzava. Una volta mi confidò anche che, per la sua successione a segretario del Pci, pensava a Minucci».
E Massimo D’Alema, invece, oggi diventato il simbolo del peggio di quella tradizione? «Io continuo a pensare che sia una grande intelligenza politica. Ma ha sempre voluto essere troppo furbo. Ai tempi della bicamerale con Berlusconi glielo dissi in faccia: “Tu farai la fine di Garibuja”. Lui mi replicò stizzito. “E chi è questo Garibuja?”. Gli risposi: “Una maschera piemontese: uno che si credeva così furbo da mettere i soldi al sicuro nelle tasche degli altri”. Alla fine ho avuto ragione io, anche se non mi fa piacere: Massimo ha fatto proprio quella fine lì».