Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  gennaio 03 Venerdì calendario

Notizie tratte da: Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione. O come mettere fine alla sofferenza sociale, Einaudi 2012, pp

Notizie tratte da: Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione. O come mettere fine alla sofferenza sociale, Einaudi 2012, pp. 218, 18 euro.

Al pari dell’uomo che cercava le chiavi sotto un lampione non perché le avesse perse lì ma perché quello era l’unico punto illuminato della strada, il pensiero dominante ha puntato i riflettori sulla stabilità dei prezzi quale obiettivo della politica economica e sulla teoria dei mercati concorrenziali per legittimare la propria azione. La stabilità dei prezzi, però, si è rivelata compatibile con la massima instabilità economica e finanziaria, la crescita del Pil si è accompagnata a una profonda miseria sociale e la deregolamentazione dei mercati è stata il preludio al loro peggior funzionamento dalla crisi degli Anni 30 del XX secolo.

«Come la luce delle stelle morte ci arriva ancora molto tempo dopo la loro fine, quella di teorie invalidate a più riprese continua a espandersi».

«Ex ante, nessun economista aveva previsto la crisi finanziaria, anche se molti, ex post, hanno preteso di averlo fatto».

Alla base del liberismo e del primato dell’economia di mercato c’è la concezione che il futuro sia prevedibile attraverso modelli matematici e che i governi debbano evitare qualunque interferenza, limitando la loro azione ad assicurare la stabilità dei prezzi, il pareggio di bilancio e la concorrenza.

«Da tempo mi interrogo sulle ragioni che spingono molti economisti, compresi alcuni tra i migliori, a investire la loro intelligenza nella costruzione di teorie la cui complessità è seconda soltanto all’inutilità».

«Come può essere dominante una teoria le cui conclusioni sono tanto contrarie all’esperienza più immediata?».

«L’economia non è una scienza esatta per via della natura del suo oggetto: l’attività umana nell’ambito della creazione, distribuzione e scambio di ricchezza. Ma è una scienza nella misura in cui, a prescindere dalla complessità di tale oggetto, deve tentare di comprenderlo in termini rigorosi».

Per John Maynard Keynes gli operatori dei mercati finanziari si comportano come quei concorrenti a cui venga richiesto di scegliere i sei volti più belli tra cento fotografie, per poi premiare chi abbia scelto in modo più conforme alla preferenza media dei partecipanti. Per vincere non ci si deve affidare alla propria analisi, ma bisogna indovinare ciò che pensano gli altri. Ecco perché sul mercato le previsioni si autoavverano: se sono convinto che la maggior parte degli operatori crede che il corso di un’azione sia sottovalutato, anche se sono sicuro che si sbaglia, è razionale comprarla finché lo faranno gli altri, perché questo ne farà aumentare il valore.

La teoria finanziaria oggi dominante, denominata dell’efficienza dei mercati, è stata formulata negli Anni 70 da Eugene Fama della scuola di Chicago. In estrema sintesi: i mercati finanziari determinano i prezzi in modo corretto tenuto conto di tutte le informazioni pubblicamente disponibili. In quegli stessi anni si è assistito a un generale ripudio delle teorie keynesiane, secondo le quali l’economia di mercato per funzionare bene ha bisogno dell’intervento di un agente esterno, la politica.

«I disequilibri degli anni Settanta non furono originati da politiche keynesiane incongruenti, ma da una serie di shock che l’economia mondiale aveva subìto: guerra del Vietnam, fine del sistema a cambi fissi di Bretton Woods, primo shock petrolifero, indebolimento del percorso di crescita della produttività».

Per i keynesiani, la disoccupazione è determinata dal malfunzionamento dei mercati. Per i neoclassici, è provocata dalle diverse istituzioni create dallo Stato per proteggere i lavoratori che, riducendo la flessibilità del lavoro, impediscono ai salari di aggiustarsi pienamente, ostacolando l’occupazione.

Lo sviluppo del cosiddetto shadow banking system, vale a dire quell’insieme di banche d’investimento, società di mutui, fondi del mercato monetario o istituti di cartolarizzazione che si muovono in un sistema meno regolamentato rispetto a quello delle classiche banche commerciali e di deposito, è stato alla base della crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Ad alimentare questo sistema, però, furono molte delle banche tradizionali, desiderose di trovare una collocazione per la grande massa di liquidità accumulata nel periodo 2000-2007.

Lehman Brothers, una delle più grandi banche d’affari al mondo, negli anni Duemila aveva acquisito diverse società specializzate nei mutui subprime senza informazioni, cioè imprese che prestavano denaro senza chiedere ai clienti il loro stato patrimoniale o reddituale. Ninja (no income, no job, no assets) era l’acronimo per designare questo tipo di mutuatario che non aveva né reddito né lavoro né patrimonio.

Nel 1999 gli Stati Uniti hanno abolito il Glass-Steagall Act, sulla separazione tra banche di deposito e banche d’affari. Era stato introdotto nel 1933 durante la presidenza Roosevelt in risposta alla crisi scoppiata nel 1929.

«Qualunque siano la bellezza formale della finanza moderna e il carattere rassicurante delle loro conclusioni, la storia è ostinata e ci insegna che, generalmente, i mercati finanziari funzionano male».

Le teorie oggi dominanti individuano nella stabilità dei prezzi la chiave per ottenere crescita, occupazione e stabilità finanziaria. Di conseguenza, le banche centrali fissano come obiettivo primario un basso tasso di inflazione e le politiche da seguire per raggiungerlo.

In Texas le banche non possono prestare più dell’80% del valore del bene che si intende acquistare e il rifinanziamento del mutuo è proibito. Molto simile è la legislazione del Canada. Né il Texas né il Canada hanno conosciuto bolle immobiliari.

«Una crisi finanziaria può essere semplice conseguenza dello “spirito animale” degli speculatori o al contrario il rivelatore di una crisi di sistema. Il capitalismo, quale si è evoluto dagli anni Settanta, potrebbe essere diventato un regime instabile, come quello che si era incagliato sugli ostacoli degli anni Trenta».

Negli Stati Uniti la quota del 10% dei redditi più elevati è passata dal 34% del reddito globale alla fine degli anni Settanta al 50% del 2007. Il primo 1% di questa fascia di élite deteneva circa il 10% del reddito nazionale nei trenta anni seguiti al secondo Dopoguerra, mentre oggi è arrivata a una quota del 23%. Lo stesso 1% si è accaparrato il 93% della crescita generale dei redditi nel biennio 2009-10.

Indebitamento delle famiglie statunitensi rispetto al reddito: 60% nel 1980, 120% nel 2007.

«Vi è sempre una soglia al di là della quale l’aumento del tasso d’interesse rende i debitori insolventi, qualunque sia lo stato iniziale del loro patrimonio. La situazione dei Paesi “virtuosi” diventerebbe drammatica se dovessere prendere denaro a prestito alle condizioni della Spagna o dell’Italia».

«I Governi dei Paesi considerati fragili gestiscono le loro economie con lo sguardo fisso sul quadrante dello spread, pensando che gli sforzi erculei che chiedono alle rispettive popolazioni finiranno per intaccare la sfiducia dei mercati e far scendere i tassi d’interesse. Fino a oggi, le loro speranze sono state però disilluse».

Il trattato di Lisbona, in tutto simile alla Costituzione europea respinta nel 2005 e contenente i dettagli delle politiche che gli Stati nazionali devono porre in atto per raggiungere deteminati obiettivi, è modificabile solo all’unanimità.

«Per come si è costruita, l’Unione Europea presenta un paradosso: necessita di cessioni di sovranità significative da parte degli Stati che la compongono, ma non le ha ancora sostituite con qualcosa di equivalente su scala comunitaria».

L’Unione Europea è caratterizzata da una legittimità senza strumenti, quella degli Stati legittimati dal processo elettorale e dalle rispettive costituzioni, che hanno però rinunciato agli strumenti del potere; e da strumenti senza legittimità, quelli delle istituzioni europee, che dispongono degli strumenti del potere (moneta, cambio, politica della concorrenza, supervisione dei bilanci) ma che non dispongono di quella legittimità politica di utilizzarli a loro discrezione al di là di ciò che è consentito dai trattati internazionali.

Tra il 1995 e il 2006 il debito pubblico italiano è sceso di 16 punti rispetto al Pil. Quello di Germanie e Francia è aumentato rispettivamente del 14% e del 12%.

«L’Italia, la Spagna, l’Irlanda o anche la Grecia non avrebbero alcun problema se potessero prendere denaro a prestito alle condizioni della Germania».

«Le condizioni imposte alla Grecia sono al tempo stesso inefficaci e ingiuste. Inefficaci, perché non si capisce bene come un Paese che si impoverisce possa diventare più solvibile. Ingiuste, perché affliggono in misura sproporzionata non soltanto le categorie più fragili della popolazione, ma anche le classi medie».

«Gli Stati membri della zona euro si indebitano in una moneta sulla quale non hanno alcun controllo».

Romano Prodi, da presidente della Commissione Europea, aveva definito «stupido» il patto di stabilità e di crescita, salvo poi fare di tutto per rispettarlo una volta diventato presidente del Consiglio.

Il Meccanismo europeo di stabilità è un fondo di 700 miliardi di euro destinato ad aiutare quegli Stati il cui fallimento potrebbe pregiudicare l’insieme dell’area. Il suo Consiglio è composto dai ministri dell’Economia e delle Finanze della zona euro e può prendere decisioni soltanto all’unanimità o, in particolari circostanze d’urgenza, con una maggioranza dell’85%. Il che di fatto concede un diritto di veto alla Germania, alla Francia e all’Italia.

Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 la Banca centrale europea ha prestato alle banche del continente circa 1.000 miliardi di euro a un tasso dell’1%.

Il fatto che nella zona euro il tasso d’interesse sia unico può non convenire a nessuno, perché le domande interne dei singoli Paesi non sono necessariamente sincrone e, di conseguenza, i tassi d’inflazione possono essere diversi.

«La deflazione è una patologia per la quale non sono stati ancora trovati farmaci di cura. Si sa come innescarla, ma non si sa veramente come uscirne. Negli anni Novanta, un governatore della Banca del Giappone mi propose la seguente analogia: se è facile, con una mazza da golf, mandare la pallina in buca, come si può far uscire la pallina con la stessa mazza?».

«La distinzione tra Paesi debitori e Paesi creditori dipende dagli scambi con l’estero e non dall’indebitamento pubblico dei diversi Stati. La Spagna, che prima della crisi aveva un debito pubblico molto inferiore a quello della Francia e della Germania (e lo rimane tuttora), sarebbe stata allora come è oggi un Paese debitore. Il Giappone, il cui debito pubblico in percentuale al Pil è il più elevato del mondo sviluppato, è un Paese creditore. La logica della distinzione è che i Paesi dove gli scambi con l’estero sono in disavanzo sono caratterizzati dal bisogno di finanziamenti esteri, perché il risparmio è inferiore all’investimento, e viceversa i Paesi in eccedenza. La distinzione, in altri termini, riguarda essenzialmente il settore privato. È l’eccesso di indebitamento privato che ha messo la Spagna nei guai».

La zona euro paga l’assenza di un vincolo di aggiustamento simmetrico, vale a dire il principio secondo cui se i Paesi debitori devono ridurre i deficit di bilancio e i costi dei salari attraverso politiche di austerità, i Paesi creditori devono sviluppare politiche che accrescano le importazioni. In pratica, la Germania dovrebbe avere un tasso d’inflazione più elevato per qualche tempo, in modo che la Spagna, ad esempio, eviti di affondare nella deflazione.

«Se l’Europa oggi delude è perché affronta un problema costituzionale come se si trattasse unicamente di un problema economico».

Il 28 luglio 2011 otto tra i più noti economisti del mondo, tra cui cinque premi Nobel, hanno firmato una lettera per esortare il Congresso degli Stati Uniti a respingere l’emendamento finalizzato a introdurre nella costituzione la clausola del pareggio di bilancio.

«Ciò che si sa della futura crescita fa pensare che le politiche di bilancio resteranno fortemente restrittive almeno fino al 2017. Se questi sforzi portano effettivamente a una riduzione del deficit di bilancio, hanno come conseguenza automatica di accrescere i deficit privati, provocando recessione, disoccupazione e precariato alle stelle, fallimenti di imprese e così via».

La Germania è l’unico Paese che, rispetto al 2008 abbia aumentato il Pil complessivo, il Pil per abitante e l’occupazione.

L’attuale politica europea ricalca un libro bianco pubblicato nel 1929 dal governo britannico, noto con il nome di treasury view, in cui, all’indomani della Grande Depressione, si sosteneva che una politica di investimenti pubblici non avrebbe avuto alcun effetto se non quello di danneggiare le finanze dello Stato. A conti fatti, dunque, la politica più raccomandabile era quella del pareggio di bilancio. Secondo questi dettami, e prima del varo del New Deal, il Pil degli Stati Uniti si contrasse di 46 punti percentuali in quattro anni.

«Sul cruscotto direzionale dei governi, il tasso di crescita del Pil occupa un posto particolare. Noi vogliamo fare del Pil la misura di ogni cosa: performance, benessere, qualità della vita. Ma esso non rappresenta che una misura dell’attività economica di mercato».

La privatizzazione dei settori sanitario o previdenziale porterebbe a un aumento del Pil, ma il benessere dei cittadini, se definito in modo appropriato, ne verrebbe diminuito.