Enrico Deaglio, Il Venerdì 3/1/2014, 3 gennaio 2014
ROSSO ANTICO, LA VITA AGRA DEI COMUNISTI
VINTAGE –
Scusate, capisco che è strano, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente, quando Il Venerdì mi ha chiesto di scrivere un pezzo sugli ultimi comunisti in Italia. È una storiella, ma come vedrete, ha una sua attinenza con la realtà. Dunque, c’è un signore che colleziona oggetti, pezzi d’arte, memorabilia del comunismo. Viene a sapere che a Napoli un antiquario conserva un piccolo dipinto, intitolato Lenin Paris. Prende l’aereo e vola. Il quadro – conservato in un basso a Fuorigrotta – è veramente piccolo, e confuso, ma il collezionista usa una lente. Ci sono due figure a letto. «Ehi», dice, ma questo è Trotzky!». «Sì», dice il gallerista Fuorigrotta. «Ehi, ma quella che è con lui è moglie di Lenin!». «Sì», ammette il gallerista, «è lei». Il collezionista gli si rivolge irritato: «Ma Lenin dov’è?». Il gallerista lo guarda compunto: «Come dice il titolo del quadro: Lenin è in Paris».
Di questi tempi, i comunisti non se la passano per niente bene; se sia solo un momentaccio, o la grande sepoltura, ancora non si sa. Però la prognosi è quella che diciamocelo.
Prendete una giornata di metà dicembre del 2013. Qui in Italia Gianni Cuperlo – una persona che tutti descrivono come colta, gentile e naturalmente onesta – un uomo che ha passato la propria vita ad organizzare e indirizzare l’attività politica di tantissime persone, l’ultimo rappresentante della tradizione comunista in un grande partito, ha clamorosamente perso le elezioni per la guida del Pd; particolare è stato umiliato nelle regioni rosse, dove i comunisti erano da sempre, come i cipressi della Toscana, l’elemento caratteristico del panorama politico. Vincitore è Matteo Renzi, il 39enne sindaco di Firenze che si vanta di non sapere le parole di Bandiera Rossa. Il «rottamatore», ora che ha finalmente rottamato, si appresta a togliere deleghe, scrivanie, uffici, lavoro a qualche migliaio di funzionari, attivisti, militanti, segretari di federazioni, sezioni, gestori di case del popolo, gestori di circoli Arci, impiegati patronati, professori corsi professionali, organizzatori di eventi culturali, la house organ tv, il potente ufficio della comunicazione. Oltre al finanziamento pubblico. Sono tempi durissimi per i comunisti italiani, specie in epoca di lavoro scarseggiante.
A Kiev, la capitale dell’Ucraina, sotto gli occhi delle televisioni di tutto il mondo, è andata in onda la distruzione di una sopravvissuta statua di Lenin, il fondatore del comunismo. In quel Paese (45 milioni di abitanti, petrolio e geopolitica), i russi (gente con un grosso pelo sullo stomaco, ma pur sempre individuati come i nipoti di Lenin) cercano di impedire in tutti i modi l’entrata dell’Ucraina nell’Unione Europea. La questione, ovviamente di importanza politica colossale, non interessa praticamente nessuna forza politica italiana. («Ci manca pure che adesso mi debba preoccupare anche dell’Ucraina») e così appare quasi commovente che un giornalista, Giulietto Chiesa, per decenni famoso corrispondente da Mosca, già eurodeputato, comunista dai grossi baffi, sia l’unico a difendere i russi. Un tempo, in questa sua passione, avrebbe avuto un partito dalla sua parte; ieri Chiesa, per difendere l’internazionalismo che fu di «larghe masse di italiani», ha dovuto candidarsi alle ultime elezioni europee in una lista – in Lettonia! – che difende i diritti della minoranza russa.
Tempi durissimi, per i comunisti. Prendete le piazze italiane: bandiere rosse non ne sventolavano, nel dicembre 2013. Piuttosto i minacciosi forconi. Infamie inaspettate: tipo Beppe Grillo che ordina ai suoi di dileggiare e insultare una delle più stimate giornaliste italiane, Maria Novella Oppo, solo perché scrive sul quotidiano L’Unità. C’era come l’impressione che, questa volta davvero, «la ditta» avesse chiuso le attività (la ditta era il nome che al partito aveva dato Pierluigi Bersani, l’uomo che divenne – quasi – presidente del consiglio).
I comunisti, in Italia, sembrano veramente essere passati di moda. Le loro idee, il loro stile, la loro «egemonia», la loro «superiorità morale», la loro forza parlamentare. Per vederli invece ancora vivi, lavorare nell’ombra, per comprendere la loro strategia segreta, bisogna andare a palazzo Grazioli o ad Arcore, e seguire i deliri dell’ex senatore Silvio Berlusconi. Lui non solo è sicuro che i comunisti esistano ancora, ma che siano stati gli artefici della sua disfatta, essendo infatti i giudici che l’hanno condannato, una chiara «applicazione» del comunismo, al pari delle Brigate Rosse. Nel paradosso italiano, i comunisti italiani dovrebbero essere grati a Silvio Berlusconi: è stato l’unico a tenerne in vita l’idea, il logo, la paura.
Tanto per citare quello che in vent’anni le sue televisioni ci hanno ammannito: «Sono sporchi, non si lavano, sono criminali, invidiosi per natura, sanno solo mettere tasse, sono responsabili dei peggiori crimini della storia, in Russia mangiavano i bambini e aspettano solo di vincere le elezioni per instaurare il bolscevismo in Italia». Troppa grazia, verrebbe da dire.
Se non ci fosse stato Berlusconi a tenerli in vita, i comunisti italiani sarebbero diventati un fenomeno marginale dal fatidico novembre 1989, venticinque anni fa, in un giorno in cui un oscuro funzionario del governo della Germania Est dichiarò ai giornalisti che, a quanto gli risultava, a seguito di grandi manifestazioni popolari che chiedevano libertà, il passaggio attraverso il muro di Berlino era permesso. «Da quando?» gli chiesero. Il funzionario guardò le carte e rispose: «Mah, direi da subito». Un’ora dopo cominciò attraverso il muro aperto una transumanza di milioni di persone, che cambiò per sempre il mondo; i regimi comunisti caddero come birilli in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria e (con un po’ più di complotto) in Romania. Nel 1993 Boris Eltsin, a Mosca, chiuse la partita del secolo e diede ordine ai carriarmati di sparare sul parlamento occupato dagli ultimi leninisti, che non avevano capito che il loro tempo era finito.
Il trapasso fu abbastanza pacifico, tutto sommato. Il comunismo aveva stufato tutti. Primi fra tutti, i comunisti stessi. Ma in Italia cominciò un melodramma. Anche perché in Italia il comunismo aveva avuto una storia strana e unica, eroica e tragica. Costituito nel 1921, il partito comunista, con morti e incarcerati, era sopravvissuto al fascismo tenendosi in vita a Mosca, ma aveva, per fortuna e per genio dei suoi maggiori esponenti, conservato autonomia di giudizio e di stile. Nella lotta partigiana i comunisti furono 7 su 10 del totale. Dopo il ’45, il comunismo italiano divenne il cinema neorealista, la Costituzione, gli operai di Sesto San Giovanni, le maestre degli asili di Reggio Emilia (altro che mangiarli, i bambini!: li coccolavano), la bonomia del capitalismo bolognese, i braccianti siciliani uccisi dalla mafia, i catto-comunisti (Alberto Sordi li chiamava «i comunisti della parrocchietta»), gli intellettuali, tormentati, con gli occhialini, i cineforum, le feste dell’Unità. I comunisti erano come una grande balena rossa, ingombrante, ma non cattiva, che veniva ogni tanto in superficie, possente, sfiatando in nome della democrazia. Sopravvissero a grandi eventi come il Sessantotto e l’avvento della televisione privata, stramazzarono di fronte alla fine dell’Unione Sovietica, la passarono liscia (perché avevano santi in paradiso, o forse davvero perché erano più onesti) al grande sterminio politico di Tangentopoli; convissero, piuttosto pavidamente, con il berlusconismo, addirittura andando al governo insieme al partito che li voleva morti. Ora la dura espulsione compiuta dagli elettori del Pd nei confronti dell’apparato comunista del partito lascia pericolanti gli ultimi fortini del comunismo italiano: Rai Tre, la Cgil scuola, l’Inps e Roberto Benigni.
E così, se oggi un antropologo volesse trovare le vestigia di quello che fu il maggiore partito comunista dell’Occidente, dovrebbe accontentarsi di fenomeni folkloristici. Sì, c’è un piccolo paese, Montaretto in provincia di La Spezia, duecento persone, tutti co- munisti (sono segnalati sulle guide anche per una ospitale Casa del popolo). C’è poi la curva dello stadio di Livorno, figlia dell’acciaio, con i calciatori che salutano ancora con il pugno chiuso; c’è la sala-chiamata del porto di Genova, dove si parla solo in stretto dialetto all’ombra dei ritratti di Lenin e Ho Chi Min. C’è la storica bacheca dell’Unità in via dei Giubbonari a Roma. I comunisti italiani hanno avute intitolate molte vie e piazze, ma non hanno statue. L’unica dove compare un simbolo comunista è quella di Aldo Moro, nella sua città natale, Maglie, in provincia di Lecce: lo statista democristiano cammina pensieroso con sottobraccio una copia dell’Unità; non sa che sarà un’organizzazione comunista ad ucciderlo. Il suo cadavere venne lasciato sotto l’imponente palazzo di via Botteghe Oscure, allora sede del Vaticano comunista; l’edificio è ora proprietà dell’Abi, Associazione Bancaria Italiana. Non ci sono più le cinture industriali rosse di Torino e Milano, anche perché non ci sono più le industrie; ma nel contempo ci sono però – caso di sincretismo religioso particolarmente piccante – due governatori della Puglia e della Sicilia, che sono, allo stesso tempo, comunisti, cattolici e gay. Se tre figli di grandi dirigenti del partito – Barca, Cossutta, Reichlin – sono diventati tre valenti economisti dalla formazione internazionale, la maggioranza dei dirigenti ha invece scritto memorie noiose di una esperienza piuttosto noiosa. Il manifesto, che dalla sua fondazione nel 1971 ha scritto sotto la testata «quotidiano comunista» si può ancora comprare in edicola, ma ti lascia così così (ha guadagnato in stile, però, dopo l’abbandono del greve vignettista Vauro). Il professor Luciano Canfora è affascinante quando spiega la superiorità della democrazia dei soviet su quella ateniese, ma non è un leader politico. Il professor Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani, l’uomo che solo pochi anni fa propose ai russi di prendersi la salma di Lenin ed esporla a Roma, è tornato ai suoi impegni universitari.
Paolo Ferrero, l’ultimo segretario di Rifondazione Comunista, francamente non si sa come passi la giornata. Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci, ha scritto un libro di memorie dove dice che la causa di tutti i guai del comunismo italiano è Massimo D’Alema. Massimo D’Alema, d’altra parte, continua a pensare che lui è il Migliore di tutti, e i fotografi lo riprendono mentre porta a spasso il cane, con molto sussiego. Veltroni è quello che ci ha provato. Vabbè.
Se tutti se la sono più o meno cavata, è sicuramente di Fausto Bertinotti la migliore success story del comunismo italiano. Sindacalista di Novara, affascinante affabulatore nei talk show, il competitor preferito di Silvio Berlusconi fece cadere il primo governo Prodi, nel 1998, esclusivamente per vanità personale. Non pago, presidente della Camera nel 2006 assistette, serafico, alla distruzione del secondo governo Prodi, operata dal senatore Franco Turigliatto, comunista trotzkista. Dopodiché visse una vecchiaia felice, orientata alla contemplazione del mondo moderno. Mai visto un comunista più contento di sé di Fausto Bertinotti.
È morto felice anche Livio Maitan, storico capo del trotzkismo italiano, una delle componenti importanti di Rifondazione Comunista. «Da una vita aspettavo di far cadere un governo borghese», disse quando affosssò il primo governo Prodi.
Altro comunismo in giro, francamente non vedo. Ed è un vero peccato. Ed è per questo che, come credo tantissime persone, compro sempre il giornale Lotta Comunista, che degli instancabili ragazzi diffondono porta a porta da decine e decine di anni. Lo si compra per una specie di affetto. Ma se poi provate a leggerlo, scoprite che è una parte bella del nostro Paese. Il giornale è l’organo di un movimento fondato nei primi anni Sessanta da due operai liguri, Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi, che credevano in Lenin e Trotzky e per nulla in Stalin e che non avevano apprezzato che il Pci italiano non si fosse schierato con i fratelli operai di Budapest nella rivolta del 1956 (guardate su YouTube le immagini dei funerali di Parodi, due anni fa a Genova, e il tributo di folla che ricevette, e scoprirete che c’è anche un’Italia sconosciuta). E se leggete il giornale, vi stupirete: invita i giovani a studiare, a formarsi una coscienza politica, a difendere gli oppressi. Pochi fogli, serissimi, diffusi mensilmente in 40 mila copie con analisi interessantissime su come vanno le sorti del comunismo, dall’ Indonesia al Bangladesh. Sono gli ultimi veri, puri, comunisti italiani. Pacifici, non vanno in tv. Ed è bello che ci siano.
Tutto finito? Ma no. Come i lettori avranno ormai sospettato, il comunismo italiano ha in serbo una sorpresa.
E infatti, nella confusa, triste, disperante Italia del dicembre 2013, un comunista c’è ancora. Ed è l’italiano più importante, il presidente della Repubblica, l’88enne Giorgio Napolitano, l’unico inquilino del Quirinale eletto due volte. Iscritto al partito comunista da quando era ragazzo a Napoli, appassionato di teatro, una vita a masticare marxismo, vie nazionali al socialismo, migliorismi, primo dirigente comunista italiano ad ottenere un visto (di otto giorni) per gli Usa nel 1978, detto Re Giorgio per le responsabilità che si è preso – la prima e più importante, quella di liquidare Silvio Berlusconi prima che questi liquidasse l’Italia – è oggi il comunista con maggior potere in Europa. Ha attraversato il secolo, senza dubbio con costanza. È stato nu poco stalinista (vabbuò, era giovane), ma anche liberale, socialdemocratico, di destra, però sempre attaccato al pezzo, patriota, realista, europeo, curioso.
Il comunista che ha salvato l’Italia, si dirà di lui. Lenin in Naples.