Paola Zanuttini, Il Venerdì 3/1/2014, 3 gennaio 2014
E LA GIOIOSA MACCHINA DA GUERRA RESTÒ IN
GARA –
Roma. Ne ha viste cose che voi umani non potreste immaginarvi, Achille Occhetto. Per esempio: «Veterocomunisti con le mutande e i calzini rossi che stanno in un partito di centro, il Pd, e mi chiedono, ancora, perché ho fatto la Svolta della Bolognina. Quando poi le domande le faccio io, e cioè: per quale ragione questi nostalgici della falce e martello votano Renzi alle primarie, la risposta è che Renzi vince. E basta. Cosa farà dopo è secondario. Questa non è politica, la disfida di Barletta».
Occhetto ha 77 anni e sta dalle parti di Sel: «Fiancheggio. Partecipo alle riunioni, ma senza diritto di voto. Un saggio che dice la sua». Il 12 novembre 1989, a 53 anni, è entrato nella Storia proponendo di sciogliere il Pci, tre giorni dopo il crollo del muro di Berlino. A liquidare il glorioso partito ci avevano già pensato il terremoto sovietico e lo slittamento della società italiana verso una piccola borghesia diffusa con fregole da Milano da bere, ma sul tempismo niente da dire. Quella temperie e le successive intemperie sono raccontate dall’ultimo segretario del Pci – e primo del Pds – in un memoriale personale e politico dal titolo programmatico: La gioiosa macchina da guerra. Così Occhetto aveva definito nel febbraio 1994 l’Alleanza dei Progressisti, che si avviava baldanzosa alle elezioni per suonarle a Berlusconi e poi essere suonata. Scopriamo dal libro che l’incauta dicitura, consegnata a un drappello di giornalisti amici dopo la formazione delle liste, ne sostituiva un’altra, giudicata inopportuna dal segretario mentre stava per pronunciarla: «Un’armata Brancaleone». Tutti risero.
Alle primarie del Pd ha votato per Civati. «Per tenere a sinistra Renzi, ma anche per smentire Flaiano: non è vero che proprio tutti gli italiani vanno sul carro dei vincitori». E subito dopo ha cominciato a polemizzare con le analisi giornalistiche che definiscono il nuovo segretario l’abrogatore del comunismo in Italia: «Veramente ci avevo già pensato venticinque anni fa. Questa amnesia storica dà ragione a Berlusconi, che vedeva comunisti da tutte le parti».
Forse per una tardiva nemesi ordita da Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, il primigenio dissolutore del Pci è alle prese con uno stizzoso colpo della strega. Facciamo un patto: lui si siede sul divano basso e se poi non ce la fa ad alzarsi gli do una mano. Le campane di piazza Farnese, va detto, sottolineano con una certa gravità la sua rievocazione della Svolta incompiuta.
Non a titolo personale, ma come umile strumento della Storia, si sente responsabile per quel che è diventata la sinistra?
«Assolutamente no. Con la Svolta abbiamo affrontato un passaggio drammatico e decisivo del Novecento, perché con la caduta del Muro si era stravolta la scena politica nazionale e mondiale. Cogliere quel giorno il nuovo inizio mi sembrava il minimo, anche se non era scontato. Molti partiti comunisti che non lo fecero hanno poi dovuto cedere all’evidenza: quelli dell’Est sono corsi dietro alla Nato e all’Europa come truppe arrese alle forze vincitrici. Neanche Andreotti, considerato da molti, non da me, mente acutissima, non capì questa trasformazione e definì impensabile l’unificazione tedesca, che io invece consideravo una delle ipotesi più immediate. Insomma, cogliemmo l’attimo fuggente».
Beh, il film era proprio dell’89.
«Il problema è stato che rispetto alla Svolta emersero tre posizioni. Una esterna e nostalgica, convinta che era cambiato ben poco, perché il Pci era già fondamentalmente diverso. E due, interne quanto opposte: la mia che prevedeva un’uscita da sinistra dalla crisi e dai delitti e dagli errori del comunismo autoritario, e quella di chi invece chi la considerava una dura necessità, per poi scegliere la strada del salotto buono, dell’inciucio e della deriva moderata. Con un abbassamento della guardia ideale che ha portato a una Real
politik e a un revival di togliattismo in tono minore: quello originale era legato a fasi ben più alte e drammatiche della nostra storia».
Scrive che nemmeno sotto tortura affermerebbe, come certi suoi ex compagni di partito, di non essere mai stato comunista. Onore alla coerenza, ma quello italiano era un comunismo realmente diverso: lei, da ragazzo, aspettava la rivoluzione?
«La rivoluzione è una componente della mia formazione politica, non c’è dubbio».
Dittatura del proletariato. Se la figurava qui in Italia, quando era nella Fgci?
«No. Seguivo l’insegnamento di Gramsci, che distingueva la rivoluzione in Oriente da quella in Occidente. In Oriente, lo Stato era tutto e la società civile niente, quindi il processo rivoluzionario doveva partire dall’occupazione e dalla demolizione dello Stato, vedi la presa del Palazzo d’Inverno. In Occidente, invece, la società civile è forte, piena di tante casematte, quindi l’idea di rivoluzione era più simile a quella di Rudi Dutschke e del ‘68 tedesco: passare di casamatta in casamatta e conquistare processi nuovi».
Ultimo test di comunismo: la proprietà privata. Prima della Terza Via di Berlinguer, la considerava un peccato capitale o un oggetto misterioso con cui fare i conti?
«La vedevo come qualcosa a metà tra la pura collettivizzazione e la redistribuzione delle ricchezze tipica delle posizioni più moderate della socialdemocrazia».
Questa casa è sua o in affitto?
«In affitto».
Il vecchio comunista che non vuol possedere le cose?
«Mi viene da mio padre, sono andato di affitto in affitto, avendo molte disdette».
Quindi non possiede una casa.
«Mia moglie ne ha una in Maremma. Nel partito c’erano elementi di distinzione rispetto alla proprietà, ma non si pensava di nazionalizzare tutto. Già nel programma dell’VIII congresso, nel 1956, la questione era quella della pubblicizzazione dei grandi mezzi di produzione, con una parte di privato che continuava ad esistere. E con la Svolta ci fu il salto: abbiamo messo in discussione il concetto di statalizzazione. Io stesso, con una certa correttezza, anche ideologica, sostengo che l’ultimo Marx non parla di statalizzazione, ma di socializzazione, oggi traducibile in economia sociale, nel rapporto tra pubblico e privato che dà anche al privato obiettivi di interesse comune e sociale».
Racconta che ha ricevuto a Sorrento la notizia dell’invasione sovietica di Praga. Mentre giocava a scacchi nella villa settecentesca di una contessa. Che differenza c’è con la barca di D’Alema?
«Ce n’è moltissima. Durante la Resistenza, la contessa Benzoni, che era stata l’amante di Salvemini, aveva aiutato molti ebrei e combattenti. Non era ricca e non aveva niente a che vedere con i salotti romani della politica. Né con il generone che io non ho mai frequentato, a differenza di altri esponenti della sinistra, anche estrema».
Come Bertinotti. Ma torniamo a D’Alema. La Svolta che le procurò accuse di orgoglio e narcisismo ha inaugurato una stagione di sinistre superbie: vedi la Bicamerale.
«Con me si ricorre sempre all’interpretazione psicologica, in ogni frase si legge rancore e dispetto. Vorrei si uscisse dalla psicanalisi, che andrebbe fatta a molti altri. Nei giorni della Svolta, io non dormivo: ai più vicini nel partito dicevo che eravamo nel giusto, ma in minoranza; che avremo perso il congresso e ci avrebbero cacciati con i forconi. Non ne ero tanto orgoglioso. Rispetto alla Bicamerale, oggi come ieri, alcuni aspetti organizzativi – non di principio – della Costituzione vanno rivisti, ma la solennità incredibile con cui fu impiantata la Commissione rappresentava quasi un contraltare al Governo Prodi, contraltare costituito dall’accordo D’Alema-Berlusconi che si proponevano come nuovi padri della patria. In questo calcolo, D’Alema, del quale si dice che è intelligentissimo, è stato giocato ampiamente da Berlusconi che, furbissimo, fece saltare il tavolo».
In Italia, i comunisti si proponevano come i migliori: quanto hanno contribuito la fine del partito e la crisi dei suoi eredi all’imbarbarimento generale della vita politica?
«La disgregazione della questione morale porta con sé i fenomeni deplorevoli cui assistiamo. Ma questa non era una conseguenza necessaria della fine del comunismo. Si auspica che la moralità possa sussistere anche senza, ci sono Paesi dove è ampiamente coltivata. E non era necessario che libri e articoli di molti miei successori, un tempo prostrati davanti a Berlinguer, rivalutassero poi Craxi, considerandolo uomo più moderno rispetto a Berlinguer, giudicato arretrato proprio per certi suoi moralismi».
Vogliamo fare qualche nome?
«No, poi viene fuori la storia del rancore. Non è vero che sono narcisista. È che sono incazzato. Non si può fare l’equazione tra questione morale e vecchio Pci, perché molti protagonisti della degenerazione erano, un tempo, comunisti convinti. E riprendiamo anche il discorso sui valori: “O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?”. Questa frase la disse Bobbio, uno di quei personaggi che un tempo avremmo considerato un moderato, ma rispetto agli attuali dirigenti della sinistra italiana è un gigante della rivoluzione. Ecco, se fosse stato lui il dirigente postcomunista della Svolta, la questione morale non sarebbe stata calpestata, e quella dell’uguaglianza rimossa».
Lei detesta l’approccio psicologista alla sua persona, ma nel libro racconta di quando da bambino infilò la manina tra le enormi cosce, bianche come la polpa di pere giganti, della tata. Insolite confessioni per uno che è stato segretario del Pci.
«Ai tempi, con le idee che c’erano nel partito e con la battaglia politica che volevo fare, non l’avrei scritto, non mi sarei fatto questo autogol, ma oggi queste parti più private servono anche a destrutturare la concezione carismatica del potere e del leader. E a raccontare la formazione e la storia di un comunista originale».
Il culto della personalità costruito attorno a Berlusconi eredita qualcosa dal quello dei leader del Pci?
«Escludo che Berlinguer fosse amato allo stesso modo di Berlusconi. Forse lo era anche di più, ma con tutt’altra discrezione. E, malgrado il culto, se un segretario del Pci fosse andato sotto inchiesta e condannato in modo così pesante, il partito si sarebbe sciolto, disgregato, per moralità interna costitutiva. Oggi, poi, il carisma si costruisce e si consuma in fretta: nel ‘48 la disfatta elettorale di Nenni e Togliatti determinò mezzo secolo di potere democristiano, altro che la mia sconfitta del ‘94; eppure nessuno pensò che non erano più i leader dei loro partiti».
Uno scampolo di carisma e disciplina politica avrebbe evitato quelli che lei definisce fenomeni deplorevoli?
«Dal centralismo del Pci e dalla mancanza di dibattito interno non siamo passati alla libera discussione di piattaforme ideali, ma alla formazione di consorterie per il potere con i loro capi bastone. Questo è il male oscuro della sinistra, che ha creato subito difficoltà a me, come segretario, e, dopo, ha boicottato la meravigliosa esperienza dell’Ulivo. Poi giù giù attraverso altri episodi oscuri, fino al mistero più misterioso della verginità della Madonna: i 101 che non hanno votato Prodi alle presidenziali. Mistero che nessuno ha discusso seriamente al congresso del Pd».
Nel famoso faccia a faccia in tv tra lei e Berlusconi, il carisma dell’imprenditore prevalse su quello del politico.
«No, mi furono attribuiti due pareggi e due vittorie. Poi si disse che avevo un vestito marrone che non funzionava: in effetti ne avevo preso uno strano, venivo da Bologna e non ci avevo fatto tanto caso, ma non credo fosse una colpa. Berlusconi, invece, aveva un distintivo brillante che attirava l’attenzione. Per quel faccia a faccia, anche i giornali non berlusconiani introiettarono l’idea berlusconiana della politica fondata sull’immagine, giudicandomi in base a quei criteri. L’ho visto dopo anni, quel confronto, e mi è sembrato alla pari. Durante una pausa pubblicitaria, lui era teso, tremava in un angolo. Gli andai vicino, gli toccai un braccio e gli dissi: tranquillo, sta andando bene».
Benissimo, infatti. Lei, comunque, era il più avanti, nel Pci, in fatto di immagine: i baci di Occhetto nel 1988 fecero epoca. Le sono serviti o l’hanno danneggiata?
«C’è chi si è scandalizzato e chi li ha esaltati come grande trovata per dimostrare la modernità comunista. Ma non andò così. Era la vigilia della mia elezione a segretario e venne in Maremma Elisabetta Catalano per un servizio fotografico; dopo tanti scatti, ne chiesi alcuni, privati, con mia moglie. Non ho mai visto il servizio, ma nelle redazioni capirono subito quali foto scegliere. Non ho fatto questioni, sarebbe stata una scelta da bacchettone. Veterocumunista».