Fiammetta Cucurnia, Il Venerdì 3/1/2014, 3 gennaio 2014
HO ODIATO IL REGIME, MAI IL SOCIALISMO
Mosca (dal nostro inviato). Mikhail Gorbaciov la prende alla lontana. Dall’idea. «Il socialismo? È fratellanza, solidarietà, giustizia, uguaglianza. Un grande ideale». Ci incontriamo in una magnifica giornata invernale. Nel senso che non piove e non nevica, ma il cielo è grigio e fa freddo. Appuntamento al ristorante georgiano della via Ostozhenka, proprio nel centro di Mosca. È arrivato in anticipo e mi aspetta sulla soglia, cavaliere come sempre. Dall’ultima volta che l’ho visto, circa un anno fa, lo trovo molto più in forma, è di buon umore, e dimagrito. Il tema della nostra conversazione non è di quelli che proprio stimolino l’appetito, ma, a quasi 83 anni, il primo Presidente dell’Urss e ultimo Segretario generale del Pcus sulla questione ha le idee chiare: «Il regime totalitario dell’Unione Sovietica non può essere utilizzato come argomento contro l’idea socialista». Un po’ meno chiare, sul resto. «Ormai decidono tutto i medici. Medicine al mattino, medicine alla sera, non si può mangiare, non si può bere...». «Però adesso ci facciamo portare un bel rosso» mi tranquillizza, e ordina una bottiglia.
«Mi capitò di leggere un po’ di tempo fa su Sovetskaja Rossija un articolo in cui si diceva che io e Raisa Maksimovna già da ragazzi avevamo deciso di distruggere dall’interno il partito comunista. Figuriamoci! Che cretinata. Ma certo una volta che decidi di scrivere una falsità, che almeno sia grandiosa!». Però ammette che un senso di ingiustizia per quello che succedeva ai tempi dell’Urss ha sempre albergato nel suo cuore, fin dalla prima infanzia. «Sarà che sono nato come Gesù Cristo, tra la stufa e la stalla nella casa dei nonni». Sta per aggiungere qualcosa, ma un signore al tavolo accanto appoggia il bicchiere e ci guarda. «Hai visto che un’agenzia russa qui mi ha dato per morto già due volte?» chiede. «Beh, non avrei mai creduto che sarei arrivato a questa età, ma comunque, come si dice, la notizia mi sembra prematura». Con cautela, cerco di riprendere il nostro discorso. Il socialismo. Sono qui apposta, per svelare l’arcano, esattamente sessant’anni dopo la morte di Stalin e 25 dalla caduta del Muro.
«Il fatto è che il nostro era un Paese poverissimo, ah! com’era povera la Russia». Torna con la memoria a Privolnoe, il suo paese natale, nel cuore della regione di Stavropol, in quelle terre del Caucaso dove si produceva il grano per la patria. Me lo descrive così bene, che mi sembra di essere lì. Le case, il profumo del fieno dopo la mietitura, le notti scure come la pece quando non c’era la luna. «I contadini russi a quei tempi vivevano come schiavi, conoscevano solo la fatica e la fame, non avevano neanche i documenti per muoversi all’interno del Paese». I suoi due nonni, Andrej e Pantelej, erano grati al sistema sovietico, «ci ha salvato, ci ha dato la terra», dicevano. E davvero all’inizio le cose «apparivano molto promettenti, ma poi...». Dice Gorbaciov che nei primi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre sembrava che le speranze avrebbero potuto realizzarsi. Una prima forma di cooperazione cominciava a diffondersi, e poi l’elettrificazione, con le sue promesse di industrializzazione della Russia. «No, da noi comunque la luce elettrica non c’era, io l’ho avuta a Mosca per la prima volta quando avevo già circa vent’anni». E poi il socialismo significava alfabetizzazione, scuole, biblioteche, cinema, l’arte e il teatro, «come avrei fatto io, figlio di contadini nella profonda Russia, ad arrivare al massimo vertice senza questo? Pensa che fui il primo abitante di Privolnoe ad andare a Mosca all’università. Mi ricordo che mi accompagnò tutto il paese, e la biblioteca, dove andavo sempre a leggere lo stesso libro di Belinskij, quel giorno me lo regalò: ce l’ho ancora».
Però, tutti e due i nonni furono arrestati e mandati al lager. Il primo nel ‘33 durante la collettivizzazione, quando la siccità bruciò i campi, i bambini morivano di fame come mosche nelle campagne russe e «lui perse tre figli in un inverno, ma Mosca lo accusò di sabotaggio per non aver rispettato il piano del raccolto». Cinque anni dopo fu la volta di Pantelej, presidente fondatore del Kolkhoz, accusato di trozkismo. «Lo interrogarono e lo torturarono per quattordici mesi. Dopo il suo ritorno ce ne parlò una volta sola e non tornò mai più sull’argomento ». Un giovane cameriere si avvicina: «Mikhail Sergheevic, questo è un piccolo dono per lei da parte nostra» e appoggia ossequioso sul tavolo un piatto di frutta del sud, pere e meloni, tutti tagliati a fette sottili e regolari. Nel centro c’è un grappolo di ribes rosso, una specie di omaggio alla città che ci ospita. Forse Gorbaciov ha intuito il mio pensiero, perché dice: «Che bella città, Mosca. L’ho sempre amata, dal primo momento che l’ho vista. Mi piaceva allora, povera e cadente, e mi piace ancora oggi, rimessa a nuovo».
Ma Mosca non è la Russia. Nei suoi ricordi di gioventù, ci sono i contadini che venivano depredati. «Il lavoro dei campi era così duro che non ti posso dire. Quando l’estate, a 15-16 anni, lavoravo al trattore, perdevo almeno cinque chili in una stagione. Una volta a fine turno mi addormentai in piedi, appoggiato alla ruota. E alla fine, a casa non si riusciva a portare niente. Le commesse statali si mangiavano tutto. C’era il Piano! Perfino da quello che cresceva nell’orto dovevi togliere una grande parte che andava allo Stato! Ancora molti anni dopo, quando parlavo al Comitato Centrale sulla politica agraria riuscivo a stento a trattenermi! ». Qui ci vuole un po’ di vino. Gorbaciov me ne versa, e solleva il bicchiere. Penso, tra me e me, che forse era solo una questione di tempo, e un giorno il socialismo reale sarebbe diventato socialismo tout court. Non so se chiederglielo. Per fortuna, non serve. «Io la penso così: in Unione Sovietica c’era un sistema totalitario duro e perfino feroce» dice. «Certo, questa durezza è andata poi via via scemando dopo la morte di Stalin, ma la sostanza è rimasta la stessa». Dopo averlo percorso dalla campagna al vertice, attraverso tutta la scala sociale e politica del Pease, dagli strapuntini al trono, Gorbaciov è certo, e a buon diritto, di saperne più di chiunque altro sull’argomento. Nessuno può negare, mi spiega, che milioni di persone, la maggioranza dei cittadini sovietici, sinceramente credevano di vivere nel socialismo. Per mille motivi, e non solo per la paura di dare spazio ai dubbi o per la forza della propaganda, pensavano che quel sistema fosse «più giusto e migliore» di quello borghese e «per lungo tempo» hanno mantenuto la fiducia e la speranza che le cose sarebbero andate sempre meglio, e si sarebbe realizzato appieno l’ideale socialista che, di questo lui è convinto, «è davvero nobile e alto». «Solo questo ci ha dato la forza di fare quello che abbiamo fatto, diventare una grande potenza, e anche vincere una guerra impossibile da vincere, lasciando stupefatto Hitler e tutte le democrazie del mondo».
Però, secondo Gorbaciov, il potere se ne è sempre approfittato, ha abusato e speculato su questa buona fede. «Non c’è, non ci può essere socialismo senza libertà».
Se per sopravvivere, dice lui, un sistema ha bisogno di una struttura capillare di controllo, il partito unico, nessuna libertà di parola o religiosa che sia, si può parlare di democrazia? Si può parlare di socialismo? Di questo si rendeva sempre più conto il Paese, dove il livello di istruzione e culturale continuava a crescere. «Era proprio questo che pensavo, che volevo, il motivo per cui ho fatto quello che ho fatto: il socialismo con la libertà» sorride, ma mi sembra un po’ triste. Ammetto di essere confusa. Volevo farmi spiegare il socialismo dall’ultimo leader di quella che fu l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, invece la matassa è sempre più ingarbugliata. Non è chiaro. «Lascia stare» mi dice. «Voi il socialismo non lo avete conosciuto. E mi sa che nemmeno noi».