Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 31/12/2013, 31 dicembre 2013
QUEL LEGAME CON I RIBELLI QAEDISTI IN SIRIA
Volgograd che quest’anno è tornata a chiamarsi ma solo per qualche giorno "l’eroica Stalingrado", oggi è uno dei molteplici fronti di una battaglia che si estende dalla Russia al Caucaso, al Medio Oriente, dal Levante siriano al Nordafrica. E’ questo il nuovo arco della crisi in cui gli interessi strategici si incrociano con l’Islam radicale, lo scontro tra sciiti e sunniti e il fallimento in corso di intere nazioni. Si muore nelle trincee metropolitane di Aleppo e di Damasco, con le autobombe a Beirut, con i kamikaze ceceni sul Volga e quelli di Al Qaeda sulle rive del Tigri e dell’Eufrate: il nuovo anno si apre trascinandosi l’onda lunga di guerre dirette e per procura combattute con ogni mezzo mentre la diplomazia si aggrappa a conferenze e negoziati.
Si offre la pace e si pensa alla guerra, come sempre. Nell’incontro con Putin del luglio scorso il principe Bandar Bin Sultan, capo dei servizi sauditi, era stato esplicito: «Noi controlliamo i ceceni che minacciano i Giochi di Sochi e noi possiamo fermarli». Mosca in cambio avrebbe dovuto abbandonare Bashar Assad al suo destino ricevendo come contropartita mano libera sui gasdotti, un patto di ferro per concordare il prezzo dell’oro nero, un contratto da 15 miliardi di dollari in armi e il mantenimento della base siriana di Tartous.
I sauditi tentavano, insieme al Qatar, di concludere la campagna acquisti fallita nel 2011. Le petro-monarchie del Golfo avevano offerto a Damasco l’equivalente di tre anni di bilancio affinché Assad rompesse con l’Iran, l’arcinemico dei sunniti. Se avesse accettato, si impegnavano a soffocare la rivolta. Ma allora fu di Bashar il gran rifiuto.
Vladimir Putin in estate ha respinto a sua volta l’offerta di Riad ma tre settimane fa è tornato a incontrare il Principe. I sauditi questa volta hanno accompagnato le sontuose proposte chiedendo di rinviare la Conferenza sulla Siria del 22 gennaio con l’obiettivo di tenere fuori l’Iran, consolidare il fronte islamico e preparare la transizione senza Assad.
L’impressione è che l’incontro, nonostante alcune convergenze, non sia andato benissimo. I ceceni continuano imperterriti a battersi contro Mosca, che li ha massacrati per 20 anni, e il loro emiro Doku Umarov, per allargare la guerra santa ai Giochi invernali, ha spedito da tempo i mujaheddin a combattere contro Assad e gli Hezbollah sciiti. Mentre i sauditi hanno appena foraggiato il Libano con 3 miliardi di armi francesi e ieri i jet di Beirut, rincuorati dai petrodollari, hanno affrontato per la prima volta i caccia siriani.
Nessuno vuole cedere, tanto meno Putin, più forte dopo avere addomesticato gli Stati Uniti sulla Siria. L’aspetto cruciale della crisi è che Mosca per frenare l’influenza dell’islamismo nazionalista nel Caucaso continuerà a sostenere le forze sciite in Medio Oriente, dalla Siria di Assad all’Iran degli ayatollah. La Russia non ha smesso di combattere contro i musulmani che affrontò in Afghanistan dal 1979 per dieci anni ed è entrata in pieno nella faida tra sunniti e sciiti. Putin “legge” un’eventuale caduta incontrollata di Assad come una breccia nel suo sistema di difesa interno, vulnerabile alla minaccia degli islamici e dei loro alleati arabi, americani ed europei.
Ma c’è di più. La Russia pensa a un passo fondamentale: espandere i suoi interessi nel Mediterraneo. I russi hanno appena firmato un contratto per il gas offshore nelle acque siriane e si propongono a Israele e Cipro come un partner esclusivo per lo sfruttamento delle loro riserve. Ecco perché l’anno si apre con una partita globale e per la sopravvivenza di grandi e medie potenze.